Myanmar, la resistenza delle giovani tigri: la generazione Z si è rifugiata nella giungla e combatte il regime dei militari
Reportage

Myanmar, la resistenza delle giovani tigri: la generazione Z si è rifugiata nella giungla e combatte il regime dei militari

Abel "Bye bye", Thu Ra con i tatuaggi della serie tv "Peaky Blinder", il generale Maui & C. arroccati a Demoso, tra rovine e zanzare: "Avevamo speranze, ora non ci restano che le armi"

di Daniele Bellocchio | foto di Carlo Cozzoli

La nebbia si solleva lentamente e la lancia scivola sulle acque limacciose del fiume Saleween. Su entrambe le rive si staglia la muraglia verde della giungla e un cielo d’opale, punteggiato di nuvole livide, annuncia l’arrivo di un acquazzone monsonico. I giovani guerriglieri della resistenza birmana, seduti ai lati dell’imbarcazione, con i fucili d’assalto saldi tra le mani, scrutano l’impercettibile. I loro occhi scandagliano la foresta e ogni volta che odono un rumore in lontananza spengono il motore della barca per accertarsi che non si tratti di un aereo della giunta. «Anche se abbiamo preso controllo di questa parte della frontiera tra la Birmania e la Thailandia, ciò non significa che le forze delle Sac (State Administration Council, nome ufficiale dell’esercito del Myanamr, ndr) non compiano incursioni con i loro aerei».

Abel ha 26 anni, il suo nome di battaglia è “Bye Bye”, dopo il golpe ha lasciato la sua città, Loikaw, si è rifugiato sulle montagne insieme a centinaia di suoi coetanei e poi è entrato a far parte del Kndf, il Karenni Nationalities Defence Force, il gruppo rivoluzionario composto in gran parte da uomini di etnia karenni che opera nel Kayah State, il centro nevralgico del conflitto civile che da oltre tre anni insanguina il Myanmar, un tempo Birmania. Il Paese, dal 1962, è stato governato da giunte militari e soltanto nel 2015 si sono tenute le prime libere elezioni che hanno visto la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia, il partito del Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi.

Dal 2015 al 2021 la Birmania ha attraversato un breve periodo di democrazia che ha permesso alle nuove generazioni di aprirsi al mondo, oltrepassare le divisioni etniche, e comprendere il significato delle parole libertà e diritti. E così, il giorno in cui i carri armati hanno occupato le vie della capitale e i militari del generale Min Aung Hlaing hanno preso il potere, nelle città di tutto il Paese, migliaia di persone si sono riversate nelle strade per protestare contro i golpisti. La decisione dell’esercito di deporre il governo è stata dettata dal timore che l’ampia maggioranza di consensi ottenuta alle urne dalla Lega Nazionale per la Democrazia, potesse consentire all’esecutivo neoeletto di cambiare la Costituzione che riserva alle forze armate il 25% dei seggi in Parlamento e i ministeri degli interni, della difesa e delle frontiere.

La democrazia – dal 2015 al 2021 – ha fatto crescere una leva di birmani aperti al mondo, liberi. I generali temevano il cambio della costituzione e la fine dei privilegi

La paura dei leader militari di essere estromessi dai gangli vitali dello Stato li ha spinti quindi a ordire il golpe e a reprimere nel sangue le proteste di piazza. Già in passato la popolazione aveva organizzato manifestazioni contro i generali. Avvenne nel 1974, in occasione dei funerali del segretario birmano dell’Onu U-Thant, poi nel 1988, quando gli studenti uscirono dalle università chiedendo il multipartitismo e una riforma del sistema economico, e ancora nel 2007 quando la rivolta venne ribattezzata la “Rivoluzione di Zafferano” per il colore delle vesti dei monaci che in quell’occasione guidarono le proteste.

La differenza tra quanto sta avvenendo in questi giorni rispetto al passato è che, alla repressione militare, questa volta, ha fatto seguito la reazione della gioventù locale. I dimostranti infatti, dopo che la polizia e l’esercito hanno soffocato nel sangue le manifestazioni, hanno dato vita alla resistenza armata e ora a lottare contro la dittatura ci sono sia le forze del People’s Defence Force, l’esercito del Governo di Unità Nazionale attualmente in esilio, sia le formazioni etniche che dal 1948 combattono per l’autonomia e i diritti delle minoranze indigene. Queste due anime della ribellione birmana, per la prima volta, si sono unite, hanno trovato un comune obiettivo politico e ora stanno combattendo fianco a fianco per sconfiggere la dittatura e creare una nuova repubblica birmana fondata sui principi della democrazia e del federalismo.

La nuova ribellione ha unito il People’s Defence Force – l’esercito del Governo di Unità Nazionale ora in esilio – e le formazioni etniche

Fuori dal mondo: vietato l’ingresso alla stampa straniera

Dal 1 febbraio 2021 in Myanmar è stato precluso l’accesso alla stampa internazionale e l’unico modo per potervi fare ingresso, è farlo clandestinamente, unendosi alle formazioni guerrigliere, solo così si può documentare un conflitto iconico per comprendere la lotta al giorno d’oggi tra autoritarismo e democrazia, tra regime e resistenza. Dopo ore di navigazione la lancia attracca su una piccola spiaggia. L’unità di guerriglieri si organizza e incomincia una marcia di diversi giorni nella giungla verso Demoso: la roccaforte ribelle. L’umidità, le zanzare, la malaria, il pericolo delle imboscate, i continui torrenti da guadare con gli zaini sopra la testa o a bordo di zattere trainate da elefanti, sono una costante logorante e inevitabile. E non c’è tempo per riposare; il rischio di essere individuati, quindi bombardati, è massimo.

Thu Ra Aung ha una data incisa sulle costole: “10/04/2024, quando mio fratello è stato ucciso”

La marcia si arresta soltanto con l’imbrunire. Ciascuno appende la propria zanzariera, adagia la stuoia su cui dormire, poi vengono stabilite le guardie e accesi i fuochi. È tra l’adagio dei cucchiai contro le gavette e il parlare liberatorio e armonioso, tra il fumo dei sigari cheerot e l’aroma delle noci di betel, che quei rivoluzionari zelanti e instancabili si spogliano dell’anonimato delle divise, dell’intransigenza delle parole d’ordine, dell’inesorabilità del sacrificio e si rivelano per chi essi sono. Sono la generazione Z del Myanmar, ventenni innocenti che hanno dovuto sparare alla propria innocenza per poterle sopravvivere, ventenni invecchiati in faccia alla morte per l’irrompere della tragedia nella loro esistenza, ventenni imberbi e sorridenti alle luce delle braci; scintille di vita nella notte birmana.

«Da quando c’è stato il golpe tutto è cambiato. Io prima stavo terminando le scuole superiori ed ero felice perché sapevo di essere finalmente libero. I sogni però si sono infranti e noi non abbiamo avuto altra scelta se non quella di imbracciare le armi. O perdere tutto o combattere, non ci sono state alternative». Thu Ra Aung ha 21 anni, sul braccio mostra i tatuaggi di Pikachu e di Thomas Shelby, il protagonista della serie Peaky Blinders, poi solleva la maglietta e indica una data incisa con l’inchiostro sulle costole: 10/04/2024; il giorno in cui suo fratello è stato assassinato. «Mio fratello più piccolo era anche lui un rivoluzionario, ma a maggio, durante un assalto a una caserma, un cecchino delle Sac l’ha ucciso. Io da quel giorno non so più cosa voglia dire essere felice».

Una canzone si leva in sottofondo, nel buio della notte e tra il frinire dei grilli; è una ballata popolare che parla della nostalgia di casa e del dolore per la lontananza dalla propria madre. «Fare la rivoluzione significa rinunciare a tutto: famiglia, amici, progetti», spiega Thu Ra Aung. «È doloroso, ma necessario. La giunta commette crimini indicibili: bombarda scuole, ospedali, campi profughi. A Demoso vi renderete conto di quello che sta avvenendo qui in Birmania».

Mu Shwe Ye massaggia la gamba amputata del figlio: “Il suo sogno era fare il calciatore”. Il ragazzo è lì, steso, e indossa la maglia dell’argentina

La roccaforte della resistenza: risaie e rovine

Demoso è la seconda città del Karenni State, conta oltre 150 mila abitanti, più della metà dell’intera popolazione della regione oggi vive in questa città conquistata dalle forze ribelli nel novembre del 2023. Demoso, a prima vista, è di una bellezza rara, tutto ha caratteristiche di eterno. Le risaie, in cui uomini e donne, con il capo coperto dai tradizionali cappelli conici e il corpo flesso ad angolo acuto, lavorano sin dalle prime ore del mattino; le montagne verdi e dorate, dove i loro figli hanno costruito nascondigli e scavato trincee, e le nuvole eburnee che si fondono all’orizzonte con le cupole bianche delle pagode, in un incanto senza soluzione di continuità.

Ma il reale, a Demoso, è al di là dello sguardo e solo addentrandosi in città si scoprono le tragedie della guerra. La scuola Daw See Ei è un cumulo di macerie. L’istituto è stato bombardato il 5 febbraio 2024, quattro studenti hanno perso la vita e oggi tra i flauti abbandonati, i quaderni carbonizzati, gli zaini strappati, è rimasta soltanto una foto di classe, con dei bambini sorridenti in posa, a ricordare cosa fosse la vita prima che tutto finisse. La Chiesa di San Matteo è stata minata e data alle fiamme e le rovine provocate dai combattimenti sono ovunque e si susseguono come muti santuari della tragedia.

«La maggior parte dei feriti che arrivano sono vittime di mine antiuomo, colpi d’artiglieria o attacchi dell’aviazione. Per poterli salvare dobbiamo effettuare delle amputazioni. Abbiamo pochissimi strumenti e farmaci e quindi non abbiamo altra scelta: mutilare l’arto per salvare la persona». Soe Ka Naing ha 31 anni, è un medico, gestisce e lavora nel solo ospedale di Demoso che si trova nascosto nel folto della giungla. Quando è scoppiato il golpe il dottore ha lasciato Yangon, e per vie clandestine è arrivato nel Kayah State. «Appena c’è stato il golpe io ho fatto delle azioni di guerriglia urbana in Yangon, preparavo ordigni, sparavo, poi ho deciso di venire qua per supportare i compagni e la gente che vive in questa zona di guerra».

L’ospedale è costituito da un insieme di baracche riparate dalle frasche degli alberi che le nascondono ai ricognitori della giunta. All’interno, uomini, donne e bambini, rappresentazione icastica di una sacra pazienza del vivere, tra sangue, bendaggi e cannule, non piangono, non si disperano, ma affidano al silenzio le urla del proprio dolore. Samuel era un contadino, stava rientrando dai campi quando ha calpestato una mina e ha perso una gamba e la vista.

Oliver si trovava sul fronte di Pekon, la sua unità venne bombardata, le schegge gli hanno sfigurato il volto, la gamba destra è stata tagliata sotto al ginocchio e ora lotta tra la vita e la morte. Mu Shwe Ye, nonostante le pieghe dure del volto, con una dolcezza mariana, massaggia la gamba amputata di suo figlio. Il bambino indossa la maglia della nazionale Argentina; sognava di fare il calciatore. «Le forze regolari bruciano villaggi, uccidono famiglie, saccheggiano e stuprano – racconta Soe Ka Naing – e questa situazione, nel Karenni State, prosegue da cinquant’anni».

Le vittime del conflitto sono oltre 55 mila, 3 milioni gli sfollati interni e 18 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria. Inoltre, a causa della guerra, in Myanmar si è intensificato anche il narcotraffico, gestito da gruppi paramilitari che, approfittando della miseria dei contadini e della situazione di precarietà economica, hanno aumentato le coltivazione di papavero da oppio tanto che, secondo un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc), i campi di oppio in Myanmar sono cresciuti del 18%, raggiungendo un totale di 47.100 ettari nel 2023.

I gruppi armati legati al commercio di droga rappresentano un’ulteriore minaccia per le forze ribelli che lottano invece contro il consumo e commercio di eroina. La resistenza controlla poco meno della metà del Paese poiché gli insorti, sebbene non abbiano cospicue dotazioni di munizioni e neppure di strumentazioni anti-aeree, vantano il quasi totale supporto da parte della popolazione. Per questa ragione le truppe di Min Aung Hlain appoggiate da Russia, India e Cina, colpiscono indiscriminatamente i civili: per assoggettarli con la paura e annichilirli con la disperazione. Le scuole bombardate sono state 174, più di 300 gli ospedali e le cliniche colpite e si è registrato un numero imprecisato di raid aerei anche sui campi profughi.

Alcuni bambini, donne e vecchi si trascinano, trasportando ricordi e rimasugli di esistenze in borsoni laceri. Altri caricano su carri trainati da bufali tutto ciò che della loro vita riescono a mettere in salvo. A Loikaw, capitale dello stato Karenni, le truppe della giunta stanno avanzando, i cittadini fuggono, mentre spettrali si levano le colonne di fumo e i boati delle esplosioni. Nel centro abitato gli scontri proseguono, i sibili delle pallottole si rincorrono tra i cespugli e le case, bombe da 120 mm fanno vibrare le pareti delle abitazioni e il fischio dei razzi Grad aggredisce i nervi e la speranza. «Dobbiamo effettuare una ritirata strategica, costringerli ad avanzare, farli entrare nelle risaie, e a quel punto poi li attacchiamo con piccole unità, da ogni lato». È la guerra di guerriglia, mordi e fuggi, sfruttare il terreno a proprio vantaggio, colpire il nemico là dove è più vulnerabile.

Il generale Maui, 31 anni, uno dei leader della rivoluzione birmana, spiega al suo stato maggiore la strategia da adottare, poi coordina la ritirata dei suoi uomini senza subire alcuna perdita. La sera, in un accampamento vicino a Demoso, il generale spiega: «Non è una sconfitta quella di oggi, ma una vittoria. Non avendo abbastanza armi per uno scontro frontale, la tattica e l’intelligenza sono tutto per l’esito finale. Dobbiamo far in modo che l’esercito venga al nostro inseguimento e cada nella nostra trappola. Noi vinceremo, perché non abbiamo alternative, se dovessimo perdere, non augurerei nemmeno al mio peggior nemico, l’inferno in cui ci troveremmo».

Il generale Maui infine si spoglia del basco, dell’uniforme e della tensione della prima linea, depone l’M-16, imbraccia la chitarra e accompagnato dai suoi ragazzi intona una canzone, dolce come una nenia materna e autentica come l’utopia dei sognatori: «A volte annego nelle mie lacrime, ma non mi lascio mai abbattere quando la negatività mi circonda, perché so che un giorno tutto cambierà. Per tutta la vita ho aspettato e ho pregato che la gente dicesse: non vogliamo più combattere, non ci saranno più guerre, e i nostri figli giocheranno… un giorno, un giorno, un giorno».

La nebbia si solleva lentamente e la lancia scivola sulle acque limacciose del fiume Saleween. Su entrambe le rive si staglia la muraglia verde della giungla e un cielo d’opale, punteggiato di nuvole livide, annuncia l’arrivo di un acquazzone monsonico. I giovani guerriglieri della resistenza birmana, seduti ai lati dell’imbarcazione, con i fucili d’assalto saldi […]

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