Il colonnello Matthew Bogdanos, oggi viceprocuratore (assistant district attorney) di New York, a capo dell’unica unità al mondo specializzata nel traffico di antichità, è un militare statunitense atipico: anche se certo lui rifiuterebbe questa definizione. Chi negli ultimi anni lo ha incontrato in una delle tante cerimonie – a Roma, al Cairo, ad Atene – di restituzione di oggetti, centinaia di oggetti, depredati dagli Stati Uniti, ha ascoltato i suoi ricordi dell’Iraq, quando conobbe molti degli ex commilitoni che lo accolgono alle conferenze, il suo rivendicare d’essere un marine. Ma allo stesso tempo, nell’oratoria ma soprattutto nei fatti, Bogdanos applica e ha contributo ad applicare la più drastica delle modalità “law and order” a un mercato che, negli Usa e non solo, era abituato a ben altri metodi: il mercato illegale dell’arte antica.
Bogdanos, quando conversiamo online per questa intervista, non ha nessuna voglia di parlare di sé ma ha ben più voglia di parlare di quel che in Europa dovrebbe essere fatto per fermare questo traffico illecito. Figlio di immigrati greci di Limnos, nato e cresciuto a New York, ha studiato legge alla Columbia University, si è arruolato nei marines, è diventato colonnello, ha operato in Afghanistan e Iraq. La sua storia cambia, o accelera, proprio lì, nel 2003, quando a Baghdad ha luogo il grande saccheggio del Museo Nazionale, più di 5 mila pezzi sottratti nei giorni dell’occupazione Usa. In quei mesi scatta qualcosa: «Mi sono reso conto di quanto pervasivo e tragico fosse il traffico internazionale di opere d’arte antica», antiquities, in inglese.
“Nel resto del mondo i trafficanti sono più veloci degli inquirenti, sommersi di scartoffie. Qui non più. Abbiamo già recuperato opere per 400 milioni di dollari”
DAGLI ANNI AI MINUTI
Il colonnello Bogdanos si offre volontario per seguire il caso e passa cinque anni come capo delle indagini, permettendo il recupero di migliaia di oggetti saccheggiati. Ma, a distanza di vent’anni, vuole dare ben poco peso alle sue vicende personali, anche se in quell’occasione si creano alcune delle relazioni internazionali che saranno fondamentali nelle indagini successive. Il colonnello dal 2017 è a capo dell’Unità per il traffico di antichità della procura distrettuale di New York, l’unica al mondo, rivendica, specializzata nell’ambito, arrivata nel frattempo a contare 20 addetti («Alcune delle persone più talentuose in assoluto nei loro campi, io sono probabilmente il più stupido» chiarisce il colonnello).
Nata su decisione del procuratore distrettuale di Manhattan Cyrus Vance Jr., che ha formalizzato il progetto portato avanti da Bogdanos con i suoi collaboratori. «Ora, quello che altrove richiede anni, noi lo facciamo in minuti»: tutti gli uomini che sono necessari a un’indagine, dagli investigatori, ai tecnici, al procuratore che deve autorizzare gli interventi, sono nello stesso ufficio. Ha funzionato, trasformando la procura di New York nella più temuta dai trafficanti d’arte internazionali – la Grande Mela è stata per decenni il punto focale di questo traffico – e la più apprezzata dai corpi di mezzo mondo (Italia, Turchia, Egitto, India, Grecia…) che chiedevano da tempo agli Usa un aiuto in più nel fermare il travaso illegale di opere d’arte.
Centinaia di sequestri (19 dei quali nel solo Metropolitan Museum of Art), a gallerie, fiere, collezionisti. Mercanti milionari incriminati e messi fuori gioco o costretti a lasciare gli Usa, case d’asta e musei spinti rapidamente a cambiare i propri criteri per le acquisizioni. La stima è di oltre 5000 manufatti recuperati provenienti da 28 Paesi diversi (700 circa solo dall’Italia, 650 già restituiti) per un valore economico di circa 400 milioni di dollari – quello culturale è, invece, non calcolabile.
“Quando un pezzo antico lascia l’Italia o l’Egitto ha bisogno di una storia falsa, rimaneggiata tra Amburgo e Bruxelles. Da lì verso la meta finale: oggi i Paesi del Golfo”
Carte bollate e telefonini
Se gli si chiede che cos’abbia di speciale la “sua” Unità newyorchese, Bogdanos ha pochi dubbi. «In tutto il mondo i trafficanti d’arte lavorano più rapidamente degli investigatori. Perché tutti gli stati, i sistemi, sono divisi tra forze dell’ordine (carabinieri o equivalenti), poi i procuratori, i pubblici ministeri, gli esperti, i tecnici. Gli analisti, gli investigatori, i pm, i regolamenti, sono divisi in diversi comparti e sezioni: per questo il traffico d’arte ha prosperato così a lungo, con trafficanti che hanno potuto operare per decenni nonostante tutti sapessero di cosa si stavano occupando», spiega Bogdanos. «Per questo abbiamo deciso di creare un’unica unità. Non dobbiamo convincere nessun procuratore con lettere rogatorie o carte bollate, facciamo tutto nello stesso ufficio, interveniamo rapidamente».
È un punto a cui il viceprocuratore distrettuale tiene moltissimo: «Prendiamo i carabinieri, sono tra i migliori al mondo, ma poi per poter intervenire devono convincere il procuratore, ottenere un permesso formale. Lo stesso accade con Scotland Yard a Londra, e ovunque». Secondo Bogdanos i sistemi europei «sono bizantini, arcani, costruiti in modo da costituire strutturalmente un ostacolo al lavoro degli investigatori. Paolo Ferri – il sostituto procuratore di Roma, mancato nel 2010, cui viene riconosciuto il merito di aver dato un impulso decisivo alle indagini sul traffico d’arte in Italia, ottenendo tra l’altro di incriminare Gianfranco Becchina, mercante d’arte castelvetranese che operava in Svizzera, ndr – mi ha raccontato di aver dovuto, per una sola indagine, inviare 680 lettere rogatorie ad altri funzionari. Sono processi che richiedono da uno a tre anni per concludersi: e così normalmente, quando riesci a intervenire, l’opera d’arte è già in un altro Stato».
Segreti sporchi
Il colonnello s’infervora a spiegare questi dettagli, come se sperasse che i legislatori europei si mettessero finalmente in ascolto. «Noi invece qui usiamo un sistema diverso, sofisticato e complesso, sai quale? Il mio telefono!» e imitando davanti ai miei occhi una telefonata a una collega su un presunto arrivo di manufatti antichi all’aeroporto di New York, con richiesta di intervento immediato, mi chiede: «Visto? Quanto ci vuole? 45 secondi?». Bogdanos fa un esempio, per spiegare come l’assenza di una struttura burocratica faciliti il loro lavoro: se va sentito un testimone dall’altra parte del mondo, come un vigilante, cosa che accade spessissimo in questo tipo di indagini, loro possono sentirlo via Zoom, altrove bisogna attenderlo in sede e con documenti bollinati. «A noi basta un testimone con informazioni buone e corroborate, ad altri purtroppo no. E non perché siano meno bravi».
New York è un punto nodale della rete globale del traffico d’arte, per questo ha deciso di creare un ufficio di questo tipo: se qualcosa arriva negli Usa, è molto probabile che passi di lì, e in quel caso l’unità distrettuale può intervenire. Ma non è l’unico nodo, anzi: ci sono i paesi d’arrivo (Londra, New York, i Paesi del Golfo sempre più); i Paesi d’origine delle antichità (Italia, Grecia, Egitto, Turchia…) e poi ci sono i paesi di transito, come Francia, Belgio, Singapore, Hong Kong. Tutti luoghi in cui, secondo Bogdanos, un’unità come quella newyorchese potrebbe e dovrebbe esistere. Tuttavia «sfortunatamente non lo fanno» rimarca il colonnello. Che non aspetta neppure la domanda successiva per calcare: «Chiediamoci: come fa a continuare ad esistere ancora il mercato illegale dell’arte? La verità è che se vuoi fermarlo, devi accrescere la pressione sui paesi di transito».
Il vero anello debole della catena, su cui il viceprocuratore sceglie di soffermarsi snocciolando dati. Bogdanos su questo punto ha il dente avvelenato. «Questo è il vero segreto sporco (dirty secret)» del mercato internazionale, spiega. «Tutti sanno che negli Usa si è acquistata arte rubata, non è uno scoop. Tutti sanno che in Italia ci sono i tombaroli. Ma senza questi intermediari, questa ripulitura, il traffico semplicemente non può avere luogo». Bogdanos descrive così la dinamica, con nomi e cognomi. «Quando un manufatto antico lascia l’Egitto o l’Italia, non vola direttamente a New York – spiega Bogdanos – ha bisogno di documenti falsi, di una storia falsa. E oltre il 95% delle opere d’arte passa per uno di questi paesi: Belgio, Francia, Svizzera e Germania. Oltre il 95%. Scrivilo questo» insiste il colonnello «e questi paesi non fanno abbastanza» per prevenire il traffico.
«Il manufatto, scavato illegalmente, deve essere pulito. E quasi sempre viene pulito in uno di questi quattro paesi – continua il colonnello – Poi ha bisogno di una documentazione falsa, di falsa provenienza, come “antica collezione francese”, e quasi mai la ottiene in Italia o in Grecia, sarebbe troppo rischioso. E poi deve essere pubblicato, apparire in un catalogo (con la falsa provenienza), in una mostra, in una galleria, in un museo universitario. A quel punto, dopo anni, arriva a New York con una storia rimaneggiata, e si racconta che sia tutto legale, perché è stata esposta ad Amburgo, a Bruxelles, a Basilea. Su questo bisogna intervenire, ma non sta avvenendo».
Il commercio prende il volo
Ciò che invece sta avvenendo, da quando l’unità guidata da Bogdanos è operativa, è che il mercato si stia spostando, autoregolando, se preferiamo, creando un ostacolo in più alle azioni della procura distrettuale. «È normale, ma è vero, sta accadendo. Facevamo molti sequestri alla fiera d’arte antica di New York, ormai pochissimi, i pezzi “dubbi” (doggy, dice il colonnello) non li vendono più qui». Sotheby’s, una delle più importanti case d’asta del mondo, ha spostato a Parigi e Londra le sue sezioni di arte antica. Le fiere di Maastricht e Londra sono diventate più importanti di quella della Grande Mela. «Dicono che sia perché i clienti sono in Europa: in parte è vero» spiega Bogdanos «perché la legge europea tutela di più chi acquista reperti di provenienza illecita senza esserne a conoscenza». Di fatto, spiega il viceprocuratore, si nota anche una selezione. ««Se devono vendere 50 oggetti, di cui 40 legali e 10 diciamo discutibili, i 10 li vendono a Maastricht, gli altri a Ny, questo sta accadendo».
E poi ci sono nuove destinazioni, soprattutto i Paesi del Golfo arabo, che sono diventati acquirenti compulsivi. «L’analogia con gli Stati Uniti degli anni ’60, in cui si comprava qualsiasi cosa, è molto stringente» ammette Bogdanos. Collezionisti, famiglie reali, ma anche nuovi musei, dal Louvre di Abu Dhabi in giù, hanno creato una forte richiesta per reperti antichi e non. «Se hai un pezzo di dubbia provenienza e ti trovi in Svizzera, è molto più facile venderlo lì. C’è un mercato che si sta spostando verso Maastricht, Basilea e il Golfo, e se i reperti arrivano lì, per noi diventa impossibile intercettarli. I criminali lo sanno».
Chiudendo la nostra conversazione, chiedo al colonnello quale sia stata l’operazione di cui è più orgoglioso, ma senza successo. «La prossima» mi assicura, citando l’architetto Frank Lloyd Wright. Gli chiedo allora perché scelga di presenziare a conferenze e cerimonie di restituzione in Italia, fatto anomalo per un funzionario americano di stanza oltreoceano. «Perché amo il vostro cibo, fate le migliori cerimonie in assoluto» scherza, ma poi aggiunge: «Tutti gli stati con cui collaboriamo sono partner, sono fondamentali. E vogliamo far vedere ai media dei paesi d’origine che ci teniamo. Che ne abbiamo abbastanza di questa storia (enough is enough). Dobbiamo far capire alle persone che il traffico d’arte è un crimine grave e un vero dramma internazionale. Per questo vengo alle conferenze, per questo ti sto parlando».
Il colonnello Matthew Bogdanos, oggi viceprocuratore (assistant district attorney) di New York, a capo dell’unica unità al mondo specializzata nel traffico di antichità, è un militare statunitense atipico: anche se certo lui rifiuterebbe questa definizione. Chi negli ultimi anni lo ha incontrato in una delle tante cerimonie – a Roma, al Cairo, ad Atene – […]