Strano parlare di ignoranza. Ancora più strano se succede in una solatia mattinata di settembre nella corte di Palazzo Castiglioni a Mantova, nel mezzo del Festivaletteratura, traboccante di colti scrittori e quasi altrettanto colti lettori. Ancora più strano se si è seduti davanti a un professore come Peter Burke, accademico di Cambridge, autore di dottissimi volumi sulla storia del Rinascimento e di affascinanti saggi di Cultural History. D’altra parte, è lui che ha scritto il ponderoso e prezioso “Ignoranza. Una storia globale”, motivo della gita mantovana. Il professore è per primo consapevole della stranezza dell’argomento. Un libro tale non dovrebbe essere composto di sole pagine bianche? si chiede giusto nella prefazione. Chi si inoltrerà nelle quasi quattrocento pagine testé pubblicate da Raffaello Cortina Editore, e noi lo consigliamo vivamente, scoprirà quanto si può scrivere in tema e quanto di noi fabula narratur, da un punto di vista teoretico, storico e – perché no? – politico.
Confesso la mia ignoranza, ma non sospettavo che gli studi sull’ignoranza fossero già così affermati. La bibliografia che emerge dalle note al suo libro è francamente impressionante. Ma come si può studiare un’assenza?
Devo confessare a mia volta che quando iniziai a pensare a questo libro, anch’io ero convinto che la bibliografia fosse molto povera. Come spesso succede a chi fa ricerca, pensavo di aver pensato a qualcosa a cui nessun altro avesse ancora pensato. Dopodiché ho scoperto di avere molti colleghi di cui non sapevo nulla. Così la mia ignoranza dell’ignoranza è stata rimpiazzata da una conoscenza frammentaria di alcune aree dell’ignoranza. Ma veniamo alla domanda da un milione di dollari. In effetti questa era la grande sfida, la ragione principale per cui ho scritto questo libro. Volevo proprio vedere come fosse possibile scrivere la storia di un’assenza. Succede spesso in ambito accademico che se un’idea tarda a maturare si decida di ribaltare il soggetto. Gli storici della memoria hanno scoperto l’oblio. E senza l’uno non si può comprendere l’altra. Così non si può capire la conoscenza senza l’ignoranza e se è per questo, neanche il contrario. È come cercare l’ombra per seguire i movimenti di qualcuno che altrimenti non riusciremmo a vedere. Un metodo è il confronto nel tempo. Ogni scoperta scientifica ci ricorda che le persone erano ignoranti riguardo a quel risultato fino a quando non è stato scoperto. Nel Medioevo noi europei pensavamo che ci fossero tre continenti. Poi arrivano Colombo e Amerigo Vespucci e diventiamo consapevoli dell’America. Ma possono esserci anche confronti nello spazio. Leggendo libri di pedagogia ho scoperto un concetto molto interessante: il curriculum nascosto, ossia ciò che non viene insegnato in una data scuola, in un certo luogo, in un determinato momento. Per fare un esempio concreto, mi sono reso conto dell’assenza della filosofia dai programmi delle scuole inglesi solo quando ho scoperto che alle superiori in Francia e in Germania è materia obbligatoria. Il confronto rivela ciò che non c’è.
“Funziona così anche la politica, com’è evidente nei regimi autoritari dove nessuno osa dire al capo ciò che pensa che il capo non voglia sentire. Ma il problema c’è anche nella Chiesa, nell’esercito…”
La prima cosa che si impara dalla lettura del suo libro, è che più che parlare di ignoranza, è meglio parlare di una pluralità di ignoranze.
Quando studiavo la storia della conoscenza, finii per adottare il termine conoscenze, al plurale, che suona strano in inglese, ma non così strano in francese o in italiano. E ho finito per applicare il plurale anche all’ignoranza. Alla fine della prima stesura del mio libro ne avevo distinte cinquantasette varietà. Il mio editore me le ha fatte ridurre a circa cinquanta, ma possiamo raggrupparle in tre macrocategorie. Per prima viene l’ignoranza semplice: per esempio non conosco il risultato dell’ultima partita dell’Arsenal. Segue il non voler sapere qualcosa, o ancora più potentemente, voler non sapere qualcosa, voler non sapere dell’Olocausto, voler non sapere del riscaldamento globale, in pratica l’attiva negazione del sapere. La terza grande categoria è la segretezza: volere che altre persone non sappiano qualcosa, agire in modo che gli altri ignorino.
Tradizionalmente siamo portati a percepire una profonda differenza tra l’ignorare, nel senso di non sapere una cosa, che è una sorta di incidente, per cui posso essere una persona molto colta e non sapere nulla di fisica, e l’essere ignoranti come condizione della persona, non possedere gli strumenti per muoversi nel mondo. È ancora una considerazione ragionevole o è un pregiudizio?
Non mi piace l’idea che nel mondo ci siano due tipi di persone: i colti e gli ignoranti. Preferisco pensare che alcuni siano più ignoranti di altri, e ancora più importante, che come disse Mark Twain, le persone siano ignoranti riguardo a cose diverse. Ora, in quanto persona che non sa guidare, che va in bicicletta e non capisce nulla di idraulica o di sistemi elettrici, ho molto rispetto di coloro che sanno di queste cose. Io so cose che loro non sanno, e loro sanno cose che io non so. Questo ci dà una base di uguaglianza su cui poter dialogare. Davvero penso che definire tout court qualcuno ignorante, come chiamare qualcuno stupido, dica molto più della nostra incapacità di capire queste persone, che delle loro mancanze.
“Esiste anche una “produzione d’ignoranza”, con la disinformazione. Esempio: l’industria del tabacco su fumo e cancro
Dalle pagine del suo libro si assume che ignoranti possono essere anche, e con conseguenze ben più drammatiche, le organizzazioni, dallo Stato all’impresa.
Per me è stata una grande scoperta. Le gerarchie possono produrre ignoranza. Numerosi studi condotti su aziende hanno sviluppato una precisa teoria dell’ignoranza organizzativa. In pratica, più grande e più gerarchica è l’azienda e più è probabile che la conoscenza non sia distribuita uniformemente al suo interno. È ovvio che i lavoratori non sappiano certe cose che il capo conosce, perché il capo ha una visione d’insieme. Ma molto spesso il capo non si rende conto che i lavoratori sanno cose che lui non sa. La questione cruciale è far comunicare le persone all’interno dell’organizzazione. Per questo in Giappone si è affermata l’usanza che di tanto in tanto il capo inviti i suoi manager a trascorrere un weekend fuori. Si sta insieme, si beve e si parla, con l’assicurazione che nulla di ciò che viene detto verrà usata una volta tornati in ufficio. Il problema dell’ignoranza organizzativa non riguarda solo il mondo degli affari. Funziona così la politica, come è particolarmente evidente nei regimi autoritari, dove nessuno osa dire al capo ciò che pensa che il capo non voglia sentire. Immaginatevi mentre dite a Stalin: “Non credo che il tuo piano quinquennale stia andando molto bene”. Ma lo stesso problema si ripresenta in ogni tipo di organizzazione gerarchica, dall’esercito alla Chiesa: i vescovi non sapevano o non volevano sapere degli abusi sui minori. Uno degli esempi di ignoranza organizzativa più drammatici cui riesca a pensare è Chernobyl. La catena si interruppe in diversi passaggi, l’informazione e la conoscenza si bloccarono dal basso verso l’alto provocando una paralisi nelle decisioni e una serie di valutazioni sbagliate dalle conseguenze catastrofiche. Situazioni simili possono verificarsi senza che nessuno lo voglia, ma ovviamente possono essere ancora peggiori quando alcune persone vogliono che altri non sappiano certe cose, con tutto il corollario di insabbiamenti e segretezza.
Uno studioso del Medioevo possedeva qualche decina di libri. Invece la nostra è un’epoca d’ansia. Non avremo mai il tempo di padroneggiare così tante conoscenze
Abbiamo parlato di gerarchia, organizzazioni, dittature, come se ignoranza e segretezza fossero la stessa cosa.
Certo, basta passare dall’ignoranza involontaria, la “ignoranza invincibile” di Tommaso d’Aquino, a quella che alcuni sociologi definiscono “produzione di ignoranza”. Personalmente preferisco dire che ciò che questi sociologi studiano è il modo in cui le persone vengono mantenute ignoranti. Le femministe inglesi del XVII secolo dicevano: “Gli uomini tengono noi donne nell’ignoranza. Non ci permettono di andare a scuola e in questo modo possono controllarci”. Si trattava evidentemente di mantenere piuttosto che produrre. Diverso il caso del legame tra fumo e cancro ai polmoni: fuori dalle riviste scientifiche questa conoscenza non era molto diffusa negli anni ’50 e l’industria del tabacco si mosse per mantenere le persone all’oscuro dei risultati della ricerca medica. In questo caso sono abbastanza d’accordo nell’usare la parola “produrre”, perché fu proprio ciò che fecero, commissionando false ricerche scientifiche, producendo confusione e disinformazione. Se posso riportare un ricordo personale, ho trascorso due anni nell’esercito perché per la mia generazione il servizio militare era ancora obbligatorio. Ero in un reggimento a Singapore composto per il novanta per cento da soldati malesi. Gli inglesi erano tutti ufficiali, oltre a pochi soldati semplici come me, impiegati in lavori d’ufficio. Gli ufficiali se ne andavano alle quattro del pomeriggio e non tornavano fino al mattino seguente. Da quel momento, l’intero reggimento si trasformava e la caserma diventava il centro di furti e traffici a dir poco spudorati. Avendo imparato a scuola che non si fa la spia, non riferii mai nulla agli ufficiali, né loro sembravano particolarmente desiderosi di sapere.
Parliamo tutti di questa come dell’era dell’informazione. Che ne è dell’ignoranza?
Mai prima d’ora nella storia dell’umanità c’è stata una tale quantità di informazione, ma più accumuliamo nozioni e più ci rendiamo conto di quante cose ancora ignoriamo. Uno studioso del Medioevo possedeva alcune decine di libri. Non credo che Petrarca avesse più di duecento libri e la sua era considerata una biblioteca enorme. A casa mia, ce ne sono dieci volte di più e sono solo una piccola parte dei libri che potrei leggere. La differenza è questa. Un tempo sapere era più facile, nelle università medievali era possibile acquisire l’intera conoscenza accademica. Si scrivevano le enciclopedie da soli! La notte dormivano tranquilli perché pensavano di sapere già tutto. Invece, la nostra è un’epoca di ansia perché siamo consapevoli che ci sono tante conoscenze là fuori, che anche se vivessimo mille anni non avremo mai il tempo di padroneggiarle. E comunque, in questo preciso istante nuove informazioni si stanno aggiungendo e vengono elaborate in conoscenza più velocemente di quanto potremo mai stare al passo.
Anni fa, un Nobel per la fisica ha detto nel suo discorso di accettazione che la più grande risorsa degli scienziati è l’ignoranza, perché ciò significa che abbiamo ancora un lavoro.
La consapevolezza dell’ignoranza è un motore sociale. A ogni passo che facciamo il campo dell’ignoranza si allarga ed è molto eccitante, oltre che ansiogeno, sapere che c’è ancora tanto da conoscere, sia per ciascuno di noi individualmente che per l’umanità. Meno intuitivo è che non è solo un movimento progressivo, possiamo tornare indietro, possiamo dimenticare cose, diventare ignoranti riguardo a cose che un tempo erano conosciute. La conoscenza può essere persa, libri che una volta erano importanti si perdono e la conoscenza che contenevano scompare o diventa inutile. È stato il caso dell’alto Medioevo. L’alfabetizzazione diminuiva, le città diventavano più piccole. La grande biblioteca di un monastero conteneva quattrocento libri, nulla rispetto alle migliaia di libri della biblioteca di Alessandria, molti secoli prima.
IL LIBRO. L’ignoranza è un tema sempre più divisivo, basti pensare agli scontri furibondi fra esperti e non sul cambiamento climatico, o alle bufale rilanciate sui social (e non solo). Allora ben venga Peter Burke con il suo ultimo libro “Ignoranza – Una storia globale” (Raffaello Cortina Editore, 384 pp., 25 euro). Burke affronta il tema con un taglio originale, che va alla radice della questione e fa esempi non convenzionali. Frutto di ignoranza possono essere anche le guerre e persino le paci, per esempio la ridefinizione dei confini dell’Europa nel 1919. Che in effetti resistettero poco.
PETER BURKE. Storico britannico, nato nel 1937, è stato professore di Storia delle Idee e della Cultura all’Università di Cambridge. Nei suoi lavori Burke mette insieme storia, sociologia, antropologia, teoria della comunicazione di massa. Ha scritto una ventina di libri, tradotti in trenta lingue. Fra quelli di maggior impatto figurano “Sociologia e storia” , “La fabbrica del Re Sole”, “Cultura e società nell’Italia del Rinascimento”, “Storia sociale della conoscenza”. È considerato uno dei massimi studiosi del Rinascimento italiano.
Strano parlare di ignoranza. Ancora più strano se succede in una solatia mattinata di settembre nella corte di Palazzo Castiglioni a Mantova, nel mezzo del Festivaletteratura, traboccante di colti scrittori e quasi altrettanto colti lettori. Ancora più strano se si è seduti davanti a un professore come Peter Burke, accademico di Cambridge, autore di dottissimi […]