Era ancora avvolta in una carta di giornale degli anni Settanta a farle da velo. “La Ddr vieta ai berlinesi occidentali di visitare l’Est per la Pentecoste” si leggeva sul foglio che per 46 anni ha coperto e nascosto la testa di Hermes che anticamente stava ai Campi Flegrei “riscoperta” l’anno scorso al Museo Archeologico di Napoli. Grande il giubilo nel mondo dell’arte. Era stata rubata nel 1978 dalla vicina Baia e ritrovata appena un anno dopo in Baviera, a 1200 chilometri di distanza e subito riconsegnata all’Italia dentro una pagina della Südwest Presse. Ma la burocrazia italiana talvolta riesce laddove persino il crimine organizzato fallisce: per quasi mezzo secolo la preziosa testa di marmo è andata perduta tra 17 mila reperti sequestrati nell’enormità oscura di un deposito giudiziario che dista solo 20 chilometri dal busto cui era stata brutalmente staccata.
La notizia del ritrovamento ha fatto il giro del mondo, la vera storia di come avvenne no. Perché è una storia tipicamente italiana, cioè incompiuta, che spegne le speranze che accende. Di un Paese che si batte per sottrarre al crimine le opere d’arte, ma poi tanto se ne cura da perderle nei sotterranei di musei, caserme e soprintendenze sparsi in tutta la Penisola. Di quelle sottoposte a sequestro non esiste neppure un censimento, tanto che ancora oggi questo patrimonio con potenziali tesori resta in larga parte sconosciuto. Ma è anche la storia dei troppi calli da pestare (e volontà da allineare) per farlo emergere e restituirlo allo Stato. Dei volenterosi che per primi ci provarono. Di quelli che raccogliendo la sfida dimostrarono che sì, è possibile vincerla. Ma tutti, dai pionieri ai seguaci di quest’impresa, attendono un segnale dal ministero: si cominci a farlo sul serio, in tutti i musei, mettendo a frutto l’esperienza fatta per liberare l’arte confinata nei depositi di tutta Italia.
Il fondale di questa storia è in realtà un’immensa soffitta del Museo Archeologico di Napoli, tra corridoi che già negli anni Settanta furono battezzati “sing-sing” secondo la celebre definizione del direttore degli Scavi di Ercolano Giuseppe Maggi. L’anno è il 2021, ma la sua vera genesi è a Roma e si deve a una sola domanda: com’è possibile? Gianluca Zandini è un esperto di marketing di beni culturali ed era allora consulente della Commissione Antimafia e così la racconta. «Si fanno protocolli praticamente per tutti i beni come case, auto, aziende e terreni agricoli e stalle, ma nulla che riguardasse le opere d’arte, benché le operazioni di sequestro non mancassero, specie legate al riciclaggio». Ne parla con la senatrice e archeologa Margherita Corrado, già candidata sindaco di Roma con il M5S, e con il generale di Brigata Roberto Riccardi. Si associa un tenente della Finanza. Il piccolo gruppo di lavoro si mette in marcia per tentare un esperimento: entrare in un magazzino giudiziario per vedere cosa c’è dentro, verificare lo stato dei registri e quello giuridico dei beni in custodia.
Pullulano pseudo-mostre sull’arte salvata. Sono solo spot: ogni museo ha un sotterraneo, ma non si sa cosa c’è dentro
È la senatrice a consigliare ai volenterosi di bussare proprio al Mann di Napoli, perché raccogliendo 270 mila reperti provenienti dagli scavi dei Campi Flegrei, Ercolano, Pompei è anche l’approdo di migliaia di sequestri per scavi illegali e i reperti che per certo appartengono di diritto allo Stato. L’allora direttore Paolo Giulierini, il 14 febbraio 2022, apre loro le cancellate in ferro per un’esplorazione che ricorda il Viaggio al Centro della Terra di Jules Verne. «Fu proprio così, un’esplorazione. L’obiettivo non era tanto fare scoperte, ma ricavare elementi utili a costruire un protocollo che il Ministero avrebbe poi potuto replicare in tutta Italia, realizzando una grande operazione di emersione del patrimonio relegato all’oblio, dimenticato da Dio e dagli uomini. Va da sé che l’operazione avesse anche un valore culturale nella lotta tra lo Stato e il crimine, di sensibilizzazione verso reati come gli scavi abusivi e furti d’arte verso i quali non c’è una riprovazione sociale». Spoiler: l’affinità tra oblio e crimine rischiò comunque di avere la meglio.
Cultura di facciata
Margherita Corrado è un po’ la Giovanna d’Arco dell’arte italiana. Archeologa e ricercatrice storica, senatrice, rivolge le armi della scienza conservativa e giuridica tanto contro i predatori di tesori quanto contro autori ed esecutori di riforme di facciata che non tutelano i beni culturali, ma scavano nuovi cunicoli burocratici per farli defluire all’estero e in collezioni private, sempre praticando le arti somme della trascuratezza e dell’impunità. Ricorda bene quei giorni. «Oggi è tutto un pullulare di pseudo-mostre sull’arte salvata, recuperata etc., ma sono iniziative spot che non modificano i problemi di fondo del quadro desolante che dipingeva Zandini che poi è sempre lo stesso, nel senso che ogni museo, caserma o soprintendenza ha il suo sotterraneo e nessuno sa esattamente cosa ci sia dentro».
Ne aveva fatta esperienza diretta quando conduceva scavi a Crotone. «Al Museo Nazionale Archeologico c’erano oggetti che erano stati sequestrati a tombaroli e mercanti d’arte anche trent’anni prima, di cui neppure gli addetti sapevano se nel frattempo fossero diventati proprietà dello Stato, e per questo non finivano mai nei depositi normali restando nel limbo di un’area che viene definita degli “orfanelli”. E succedeva anche se il procedimento giudiziario per cui erano finiti lì era stato definito da anni. Almeno un registro lì c’era e veniva tenuto in maniera puntuale, ma solo perché l’addetto si sentiva investito di quella responsabilità che gli conferiva uno status diverso dai colleghi impiegati negli scavi».
Fregi, statue e monete tenute nelle casette della frutta
L’archeologa insiste: la situazione è ben nota al ministero, ma nessuno ha voluto occuparsene seriamente. «Da Franceschini a Bonisoli tutti hanno inteso la tutela come contrasto agli scavi clandestini perché è più comodo ridurre il problema a una questione di indagini e sequestri delegati al Nucleo e alle forze dell’ordine che farsi carico di una tutela di fondo più ampia, che arrivi fino ai sotterranei. È anche più facile, perché da quel magma ignoto e senza contesto può sempre saltar fuori il pezzo di valore che crea occasioni di visibilità per tutti, ma non risponde certo a criteri di studio e di aumento della conoscenza che dovrebbe essere il presupposto di ogni percorso di esposizione».
L’esempio perfetto arriva da Roma. Alle Terme di Diocleziano nel 2022 è nato il Museo dell’Arte Salvata pensato come spazio di transito ed esposizione dei beni recuperati dai carabinieri prima che siano restituiti: già l’anno dopo veniva chiuso al pubblico e lo è ancora oggi a causa dei lavori del Giubileo 2025. Altre iniziative-spot pullulano lungo tutto lo Stivale. E non è quello che si voleva. La caccia al tesoro era tesa a individuare non reperti, ma un metodo che consentisse di riportare alla luce quel che già era in possesso dello Stato, ma tenuto nell’ombra. «Facemmo più visite e incontri – racconta Zandini – perorando la causa di un censimento digitale delle opere sequestrate, che prima di allora non era mai stato fatto, in base al quale sarebbe poi seguita la ricostruzione a campione dello status giuridico di alcuni beni in collaborazione con la Procura di Napoli».
Se le diverse autorità non si coordinano è la paralisi: i reperti sigillati non si possono toccare senza l’ok dei magistrati
La piccola squadra varca l’area interdetta del Museo di Napoli sognando di arrivare un giorno agli Uffizi, ai Musei Capitolini, all’Arsenale di Venezia. Ai loro occhi si dipanano lunghi corridoi con scaffali e casse protetti da grate, sbarre di ferro e lucchetti. La poca luce che penetra dagli oblò riflette profili di anfore e marmi. Cassette di plastica da scavo gialle e blu sono impilate in alte colonne come casse dell’ortofrutta che al posto delle arance custodiscono sacchi di monete, suppellettili di ogni tipo, fregi, statuette di terracotta o bronzo. «Ci trovammo di fronte a una specie di carcere interdetto, con sezioni chiuse con pacchi e tagliandi che sembravano quelli che si mettono ai pollici nelle sale mortuarie», racconta un ufficiale della Guardia di Finanza di rango come Amos Bolis, tra i quaranta che fecero l’inchiesta sul Mose e trovò anche il tempo di fare, a proprie spese, la trasferta a Napoli per capirci qualcosa.
Impresa non facile. Sull’etichetta ingiallita di un’anfora si leggeva: “Benito Plotino n.183 – 11.01.2001”. Apparteneva all’ex presidente della Cassa di Risparmio Salernitana arrestato sul finire degli anni Novanta: 24 anni dopo è ancora lì, non lontano dalla testa di Hermes, ma mischiato ad altre migliaia e migliaia di reperti provento di sequestri giudiziari perduti nel tempo. «Ci incamminammo in un’area che conteneva reperti di Pompei che erano ammassati lì da cinquant’anni, passati indenni da due Codici di procedura penale, ai tempi in cui c’era ancora il Pretore. Ebbi la netta percezione che le nostre domande iniziavano a creare un certo disagio», ricorda Zandini. Un venticello di diffidenza rallenta la spinta di quel viaggio esplorativo che inizia a naufragare tra le onde della burocrazia e delle responsabilità senza nome. «Ci rendemmo presto conto che molti beni erano stati “liberati” sulla carta, ma la comunicazione dal Tribunale non era stata trasmessa al museo, o viceversa, e il pezzo detenuto non aveva più una scheda corrispondente. Nel corso dei decenni i reperti erano stati spostati, rotti, persi, o trafugati. Senza che nessuno avesse fatto rapporto».
Di chi è la responsabilità? E nessuno rispose…
I tre capirono allora che stavano toccando un altro filo di corrente: il rischio di dover sollevare addebiti per omissioni e imperizia, anche in capo a chi solo in quel momento aveva funzioni e responsabilità, un grande tema di responsabilità nella gestione dei beni culturali che nessuno aveva interesse a sollevare. «Arrivammo a ipotizzare una sorta di scudo penale», racconta Zandini. Di fatto i contatti con il Museo di Napoli si interruppero allora e bruscamente. «Sarà stato un caso, ma quando emerse questo problema il direttore smise di rispondere. Un giorno poi Paolo Giulierini mi chiamò e mi disse che avevano trovato una testa di statua dei Campi Flegrei, quella di Hermes poi esposta con grande fanfara di celebrazioni e flash. Nessuno disse che la scoperta era il frutto di quell’esperimento-pilota che finì per naufragare».
In realtà il progetto andò avanti. «Cadde la legislatura ma noi proseguimmo il lavoro con un gruppo che alla fine contava una cinquantina di persone», racconta l’ex direttore Giulierini. «Grazie a un accordo con l’Università degli Studi di Napoli, il Nucleo Tutela e la magistratura, siamo riusciti a ricostruire lo status giuridico di oltre 20 mila reperti che erano sigillati in gran parte dal 1969 (anno di creazione del Ntpc, ndr) e ne è venuto fuori un metodo di lavoro che può essere replicato ovunque, perché tutti i musei sono utilizzati come deposito. E di fronte ai rischi per omessa custodia decisi che me li sarei assunti in prima persona e anche per quelli che avevano gestito il Museo prima di me, perché in cuor mio ero convinto che anche questo rientri nei doveri di chi esercita una pubblica funzione». Uno dei maggiori scogli era dissigillare il materiale e ricollegarlo a 150 fascicoli, poi verificare per ciascuno lo stato del procedimento, se fossero cioè da restituire ai proprietari o conferire definitivamente al patrimonio dello Stato.
Luce in fondo al tunnel?
«I reperti non si potevano neppure toccare o movimentare, dal momento che erano sigillati, senza autorizzazione della magistratura», racconta Daniela Savi, docente di diritto europeo dei Beni Culturali alla facoltà di giurisprudenza di Napoli. «Per risolvere quel problema chiamai il procuratore Vincenzo Piscitelli per concordare con lui una procedura che abbiamo poi studiato insieme ai miei studenti, grazie alla quale dal 2022 abbiamo potuto visionare oltre trecento fascicoli corrispondenti ai beni sparsi in tutte le procure del circondario. In molti casi il giudizio era definito, ma al museo non era stata data la comunicazione. Abbiamo così creato un primo database definendo finalmente lo status giuridico effettivo dei 17 mila beni in custodia giudiziale, se fossero cioé ancora oggetto di confisca o potessero essere conferiti definitivamente al patrimonio dello Stato. E ora stiamo lavorando con la soprintendenza, il Comune, l’Arcidiocesi e la Procura di Napoli per estendere la ricerca a tutta l’area metropolitana. Io spero che di questo progetto pilota il Ministero faccia tesoro, anche perché la legge 22/2022 che riforma il codice penale ha introdotto un titolo bis con nuovi reati per il traffico illecito di beni culturali, la distruzione e per i funzionari pubblici li hanno in custodia. Mettere mano ai depositi giudiziali, insomma, è diventato un dovere».
Da questa esperienza sono figliati mostre, convegni e volumi scientifici come Il Tesoro della Legalità. Luce dai depositi del Mann pubblicato nel 2023. «Siamo riusciti in questa impresa perché abbiamo avuto la forza di coinvolgere tante persone e di attivare la collaborazione di tutti gli attori in campo, cosa che altrove non sarebbe facile perché non tutti i musei hanno un’università o un ufficio di Procura accanto. Abbiamo messo a punto soprattutto un metodo scientifico, ma per esportarlo sarebbe necessario che il ministero non disperdesse, ma anzi usasse questa esperienza per portarla fino in fondo e dappertutto. Nessun degli oggetti che viene ritrovato cambia la storia, ma un’operazione come questa consentirebbe di passare dalla dimensione del sensazionalismo del recupero a quella educativa che eradica pian piano la cultura dell’illegalità».
Era ancora avvolta in una carta di giornale degli anni Settanta a farle da velo. “La Ddr vieta ai berlinesi occidentali di visitare l’Est per la Pentecoste” si leggeva sul foglio che per 46 anni ha coperto e nascosto la testa di Hermes che anticamente stava ai Campi Flegrei “riscoperta” l’anno scorso al Museo Archeologico […]