Non capita spesso che i libri di un premio Nobel per l’economia diventino best seller. “La globalizzazione e i suoi oppositori” è stata una rara eccezione. Joseph Stiglitz l’aveva dato alle stampe pochi mesi dopo aver ottenuto il riconoscimento per i suoi studi sui fallimenti di mercato. Ma il libro parlava d’altro. Erano gli anni del movimento no-global, del G8 di Genova, del Forum di Porto Alegre. Stiglitz, che nel 2000 si era dimesso da capo economista della Banca mondiale, metteva a nudo i limiti delle ricette neoliberiste imposte dalle istituzioni internazionali ai Paesi in via di sviluppo. Liberalizzazione dei mercati dei capitali, taglio della spesa pubblica e privatizzazioni a tappeto, spiegava, avevano strangolato la crescita e aggravato la povertà. Ventidue anni più tardi, collegato dal suo ufficio sulla East Coast, spiega che il neoliberismo sta affossando anche l’Occidente. Ma c’è un possibile antidoto.
Il suo ultimo libro, “The road to freedom” (“La strada per la libertà”, Einaudi), è una risposta a “The road to serfdom” di Friedrich von Hayek, opera molto amata da Margaret Thatcher. Secondo Hayek il controllo pubblico sull’economia avrebbe portato a un nuovo nazismo. Lei al contrario sostiene che è il libero mercato senza paletti a farci rischiare “fascismi del 21esimo secolo”. In che modo?
Il neoliberismo allarga le disuguaglianze e consente alle aziende di abusare del proprio potere di mercato, con tutti i guasti che questo comporta. Larghe fasce di popolazione non se la passano bene. Le persone hanno la sensazione che il sistema sia marcio. La disuguaglianza economica a sua volta alimenta quella politica: al posto del principio “una persona, un voto” passa la regola “a ogni dollaro un voto”. Questo crea un senso di alienazione che si traduce in consenso per demagoghi autoritari come Trump. Che hanno successo soprattutto dove i governi fanno troppo poco per i cittadini, non il contrario. Per questo dico che Hayek e Milton Friedman si sbagliavano radicalmente.
Lei ha studiato per decenni i fallimenti di mercato. Quali sono oggi i casi più eclatanti di inefficienze della “mano invisibile” che danneggiano la società nel suo complesso?
Il primo è l’inquinamento, una minaccia esistenziale. Le emissioni di Co2 mettono a rischio il pianeta. Il secondo è il potere di mercato. In una situazione di perfetta concorrenza i profitti dovrebbero azzerarsi. Chiaramente non sta succedendo: gruppi come Google e Amazon fanno enormi profitti perché hanno enorme potere di mercato e ne abusano. Ma non si tratta solo dei giganti digitali: molte comunità possono scegliere solo tra uno o due fornitori di servizi telefonici, internet, servizi sanitari e assicurativi. Il terzo è quello che è stato al centro del mio lavoro teorico: le aziende si avvantaggiano delle asimmetrie informative. Lo definiamo phishing for phools (dal titolo di un libro dei Nobel George Akerlof e Robert Shiller, ndr), cioè andare a caccia di fessi: è il tentativo di approfittare dei vulnerabili.
Altro che libera competizione, le aziende praticano la caccia ai fessi. Si avvantaggiano delle asimmetrie informative per approfittare delle persone più vulnerabili
L’agenda neoliberista promossa negli ultimi quarant’anni dalle destre, e spesso appoggiata dal centrosinistra, ha avuto come risultati una bassa crescita del pil pro capite, alti livelli di disuguaglianza, salari stagnanti. Come via d’uscita lei propone un “capitalismo progressista” o, nella versione europea, una “socialdemocrazia rivitalizzata”. Come funzionerebbe?
È un sistema con elementi di economia di mercato, ma più regolamentazione per correggere i fallimenti del mercato stesso, garantire la concorrenza e limitare le forme di sfruttamento che caratterizzano larga parte del capitalismo. Un sistema in cui i governi si impegnano di più nella ricerca di base, che è fondamento dell’innovazione, nei servizi sanitari, nell’assistenza agli anziani (negli Usa gli hedge fund sono entrati anche in quel settore), nel trasporto pubblico e nell’istruzione superiore. Non è un caso se tutte le nostre grandi università sono statali – come quella della California – o senza scopo di lucro – come Columbia e Harvard. In generale, al centro c’è un miglior bilanciamento tra il settore privato e l’azione collettiva. Quella di governo, ma anche di ong, cooperative, fondazioni, sindacati.
È ancora possibile dopo la rielezione di Donald Trump?
Negli Usa le chance si riducono. Altrove l’impatto potrebbe essere positivo, perché le persone vedranno come vanno le cose da noi e capiranno che non vogliono che accada anche da loro.
Sempre più osservatori e accademici dubitano però che il capitalismo possa rinnovarsi salvando se stesso. Da una prospettiva marxista, ritengono sia necessario superarlo radicalmente. Cosa ne pensa?
Il capitalismo nella forma neoliberista si autodivora perché incoraggia l’egoismo spietato ed è terreno fertile per persone come Trump, pronte a violare qualsiasi contratto e a fregarti appena ti giri. Quindi concordo sul fatto che il sistema non sia sostenibile e che dobbiamo andare oltre. Ma il comunismo, nato dalla critica al capitalismo, non ha funzionato molto bene. Credo che dobbiamo continuare ad avere realtà for profit, con maggiore regolamentazione pubblica.
Nel frattempo gli elettori occidentali votano sempre più spesso per partiti di destra o estrema destra con programmi economici che favoriscono ricchi e grandi aziende. È evidente che la sinistra sta sbagliando qualcosa…
È chiaro che c’è stato un enorme fallimento nel comunicare quello che è stato fatto. Molte persone non sanno, per esempio, che l’Obamacare è un sostegno che arriva dal governo federale. Lo stesso vale per Medicare e Social security. Ma non è solo questo. I Dem, appoggiati dalle istituzioni finanziarie e dai ricchi, hanno esitato ad adottare politiche che rispondessero davvero alle preoccupazioni dell’americano medio. Trump è stato bravo a dar voce al risentimento, a dire che il sistema è “truccato”, e da alcuni punti di vista ha ragione: abbiamo deregolamentato le banche e poi le abbiamo salvate, questo ha scatenato molta rabbia. Quel che non ha fatto è offrire soluzioni. Nel suo primo mandato si è limitato a tagliare le tasse ai miliardari e alle corporation.
Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, avrà un ruolo importante a supporto della nuova amministrazione Usa. Forbes ha calcolato che 83 miliardari hanno sostenuto Kamala Harris e 52 hanno finanziato Trump. La democrazia statunitense sta diventando una plutocrazia?
È una definizione accurata. Con disprezzo abbiamo definito oligarchi i russi che hanno accumulato ricchezza facendo leva sulle relazioni con il governo e poi l’hanno usata per influenzare la politica. Ma credo che oggi si possa usare lo stesso termine per definire Musk e altre persone intorno a Trump che si arricchiscono sfruttando rendite. Vero, diversi miliardari hanno supportato anche Harris, tuttavia non tutti hanno lo stesso peso: l’impatto politico di chi possiede una piattaforma come X, o di una persona come Murdoch che controlla un mezzo di comunicazione, è enorme.
Gli Stati continuano a rinviare le misure radicali che sarebbero necessarie per gestire la crisi climatica. La Ue ha annacquato il suo Green Deal. La transizione ecologica è così costosa politicamente che per gestirla dobbiamo affidarci al mercato?
No, perché è il mercato che ci ha portati a questa crisi. Dobbiamo cercare di rendere il Green New Deal politicamente accettabile enfatizzando, per esempio, la creazione di posti di lavoro: nell’installazione dei pannelli solari ci sono da tre a cinque volte più posti di quanti ce ne fossero nelle miniere di carbone. Io comunque sono ottimista. Il costo dell’energia rinnovabile sta crollando e ci sono stati molti avanzamenti tecnologici, penso all’acciaio green e ai sistemi di trasporto meno inquinanti. E i giovani si rendono conto che se non facciamo qualcosa il loro mondo sarà inabitabile: il rinnovamento demografico è dalla nostra parte.
È il mercato che ci ha portato alla crisi climatica. Dobbiamo rendere il Green New Deal politicamente accettabile
La tassazione delle grandi ricchezze, che anche lei ha promosso, è entrata tra gli impegni di massima presi dai leader del G20 a Rio. Stando a un sondaggio di Demopolis per Oxfam, sette italiani su dieci la vorrebbero. Se non si riuscirà a realizzarla a livello globale l’Unione Europea potrebbe muoversi da sola?
Visto che molti ricchi riescono a evitare di pagare imposte sui propri redditi, si tratta di assicurarsi che versino almeno il 2% di quello che possiedono (ne deriverebbe un gettito di 250 miliardi l’anno, ndr). Discuterne a livello globale è importante perché c’è il problema dei paradisi fiscali – compresi quelli all’interno degli Stati Uniti e dell’Europa – e i molto abbienti potrebbero reagire spostandosi verso giurisdizioni a bassa tassazione. Ma l’Ue può comunque imporre una wealth tax a livello continentale: ci sono tanti modi per disegnarla in modo da evitare l’elusione. Si potrebbe stabilire che nessun cittadino può tenere soldi nei paradisi senza dichiararli. E si potrebbe imporre a chi decide di rinunciare alla cittadinanza per sfuggire alla tassa di versare una exit tax prima di andarsene.
Il Patto di stabilità europeo è stato riformato. Ma restano severi parametri numerici di controllo del deficit. Che conseguenze prevede?
Pessime. È recessivo, è la solita austerità neoliberista vecchio stile. Gli europei dovrebbero essere preoccupati. Soprattutto perché se Trump gonfierà il deficit statunitense e la Fed aumenterà i tassi (per controbilanciare la spinta inflazionistica, ndr) la Bce potrebbe reagire alzandoli a sua volta per mantenere in equilibrio il cambio. In quel caso avreste una politica fiscale e una politica monetaria entrambe restrittive e l’economia rallenterebbe.
In Italia i salari sono fermi dagli anni Novanta e la povertà è aumentata, soprattutto tra i lavoratori. C’è una via di uscita?
Vedo una somiglianza con le aree degli Stati Uniti che hanno subìto una deindustrializzazione e in cui le persone si sono sentite lasciate indietro. L’Italia sta attraversando una trasformazione economica e il mercato è pessimo nel gestire queste situazioni. Per affrontare le specifiche sfide poste da questa ristrutturazione serve un intervento pubblico ben disegnato.
Joseph E. Stiglitz. Nato nel 1943 a Gary, nell’Indiana, ha vinto il premio Nobel per l’Economia nel 2001, dopo essere stato capo del dipartimento di ricerca economica della Banca Mondiale, dal 1996 al 1999, e vicepresidente dal 1997-2000. L’esperienza ai vertici di una delle istituzioni simbolo del neoliberismo lo ha reso molto critico nei confronti dell’ideologia del mercato. Il suo libro “La globalizazzione e i suoi oppositori”, del 2002, è stato un successo mondiale. È stato presidente del Consiglio dei consulenti economici di Bill Clinton durante il primo mandato presidenziale. Attualmente insegna alla Columbia University ed è chief economist del Roosevelt Institute
Non capita spesso che i libri di un premio Nobel per l’economia diventino best seller. “La globalizzazione e i suoi oppositori” è stata una rara eccezione. Joseph Stiglitz l’aveva dato alle stampe pochi mesi dopo aver ottenuto il riconoscimento per i suoi studi sui fallimenti di mercato. Ma il libro parlava d’altro. Erano gli anni […]