Oggi la correlazione tra abitudini alimentari scorrette e danni a carico della salute nostra e del pianeta è un dato accertato. La scienza ci dice che una cattiva alimentazione causa costi sociali e sanitari impressionanti che l’ultimo rapporto della Fao sullo stato dell’alimentazione e agricoltura nel mondo ha quantificato in 8 trilioni di dollari all’anno. Si tratta di un fardello globale che non è solo economico, ma anche umano: circa il 70% di questi danni deriva infatti da malattie non trasmissibili, spesso causate da diete troppo ricche di grassi saturi, sodio e zuccheri aggiunti e di contro povere di frutta e verdura. In Italia oggi ci sono oltre 6 milioni di persone obese (+1,6 milioni in 20 anni) e cioè più del 10% della popolazione. Il fenomeno colpisce duramente anche i giovani nella fascia 18-34 anni e i giovanissimi al di sotto dei 10 anni. Ma l’obesità non è solo eccesso di peso. Si porta infatti appresso circa 200 possibili complicazioni (tumori, malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, malattie respiratorie etc.) rappresentando così una vera e propria piaga sociale che chiede di essere affrontata con urgenza.
Per far fronte all’obesità e alle altre patologie legate a una scorretta alimentazione è dirimente ribadire un aspetto fondamentale che spesso dimentichiamo: tutti noi cittadini, con le nostre scelte, rappresentiamo una forza enorme e potenzialmente capace di cambiare il sistema agroalimentare. Se ci pensiamo, con 6 miliardi e mezzo di adulti che ogni giorno scelgono per sé stessi – e in alcuni casi anche per le persone di cui si prendono cura – cosa mangiare, siamo la “lobby” più potente al mondo. Nel corso del tempo abbiamo però perso consapevolezza di questo nostro potere essenzialmente per due ordini di ragioni che vanno di pari passo: la categorizzazione delle persone in “consumatori” e l’industrializzazione del cibo. Definirsi consumatori anziché cittadini nello spiegare la nostra relazione con il cibo ci etichetta al ruolo passivo di semplici destinatari di beni e servizi.
Ribelliamoci ai cibi ultraprocessati e la politica deve pensare a tasse ad hoc
Sembra una questione di poco conto eppure le parole danno forma alla conoscenza che facciamo del mondo e al modo in cui interagiamo con esso. Riconoscere il nostro ruolo attivo di cittadini ci permette di capire come siamo noi che, con le nostre scelte, indirizziamo le decisioni delle grandi aziende, e possiamo quindi influenzare il sistema agroalimentare (invece avviene l’esatto contrario). Venendo al secondo punto, l’industria alimentare ha ridotto molti alimenti a meri prodotti per soddisfare bisogni immediati, ignorandone il valore nutrizionale e l’impatto a lungo termine. Aggiungo: questi prodotti sono spesso progettati per alimentare voglie che rispondo alla gola (di dolce, salato, grasso), piuttosto che alla fame e che, proprio per queste caratteristiche intrinseche, ci spingono a indulgere a un consumo eccessivo. È ora di tornare ad avere una visione olistica del cibo, considerandolo come un elemento fondamentale capace di garantire e preservare il nostro benessere.
Affinché ciò avvenga la consapevolezza diventa l’elemento su cui investire. Solo una persona informata può fare scelte responsabili e orientate alla salute. Per promuovere questa consapevolezza, l’educazione alimentare deve diventare una priorità, dalle scuole ai luoghi di lavoro per esempio attraverso mirati programmi di nutrizione nelle mense. È responsabilità delle istituzioni fornire gli strumenti e le informazioni necessarie affinché tutti possano distinguere un cibo sano da un prodotto ultra-processato. Contestualmente è indispensabile intervenire anche con politiche economiche che orientino il potere d’acquisto delle persone verso opzioni sostenibili e sane. Incentivi per la frutta e la verdura, così come tasse su bevande zuccherate e prodotti ad alto impatto ambientale, potrebbero incoraggiare scelte più salutari. Si tratta di politiche che non solo ridurrebbero il peso delle malattie legate alla cattiva alimentazione, ma promuoverebbero un sistema alimentare più giusto e orientato alla salute pubblica, anziché gonfiare il portafoglio di poche multinazionali.
Siamo di fronte a un bivio. Da una parte, c’è la possibilità di continuare lungo la strada che conduce a un aumento delle malattie croniche e dei costi nascosti del cibo che portiamo in tavola. Dall’altra, c’è l’opportunità di costruire un sistema alimentare che promuova la salute, la sostenibilità e la giustizia sociale. Il passaggio da un “cibo che ammala” a un “cibo che cura” è possibile solo con un cambiamento collettivo e un impegno comune. I consumatori devono farsi sentire, chiedendo prodotti sani, rispettosi dell’ambiente e del lavoro umano. Dall’altra parte, i produttori e i governi devono garantire che tutti abbiano accesso a cibi di qualità. La nostra alimentazione può e deve diventare una scelta consapevole, un atto di rispetto verso noi stessi e il pianeta.
Oggi la correlazione tra abitudini alimentari scorrette e danni a carico della salute nostra e del pianeta è un dato accertato. La scienza ci dice che una cattiva alimentazione causa costi sociali e sanitari impressionanti che l’ultimo rapporto della Fao sullo stato dell’alimentazione e agricoltura nel mondo ha quantificato in 8 trilioni di dollari all’anno. […]