La giungla degli chef: fatturati, denunce e “calciomercato”
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La giungla degli chef: fatturati, denunce e “calciomercato”

Altro che reality. L'alta cucina tira eccome, soprattutto i "brand": 209 milioni nel 2023. Tra i fornelli vere e proprie campagne acquisti, ma anche lotte di classe, sessismo e svalvolati (che per cucire una ferita mettono la mano su piastre roventi)

di Tommaso Rodano

Tra una stella e l’altra, il mondo dell’alta cucina si consuma in una discussione angosciata: il fine dining, la ristorazione d’élite, è in crisi? Ha ancora senso dannarsi per lo stemma Michelin (e da ultimi gli chef del “Giglio” di Lucca hanno detto “basta!” e l’hanno mollata)? A giudicare dai numeri dei più importanti cuochi italiani, si direbbe che no, crisi proprio no.

La classifica è della rivista specializzata Pambianco, che ha messo in fila i 10 chef più ricchi del Paese. Dominano i fratelli Cerea, titolari del marchio Da Vittorio, storico tre stelle Michelin di Brusaporto (Bergamo), con un fatturato da 87 milioni di euro nel 2023 (20 più del 2022). Segue il popolarissimo Antonino Cannavacciuolo (24 milioni, +4% sull’anno precedente), chiudono il podio i fratelli Alajmo (19 milioni, +6%). Poi, via via, altri mostri sacri della ristorazione italiana: Massimo Bottura, Enrico Bartolini, Carlo Cracco, Niko Romito, Giancarlo Perbellini, l’Enoteca Pinchiorri ed Enrico Crippa. Tutti compresi tra i 18 e i 6 milioni e mezzo di fatturato, con un tasso di crescita annua tra il 4 e il 26%. Nel complesso, gli imperi dei super chef sono passati dai 178 milioni di euro del 2022 ai quasi 209 milioni dell’anno successivo. E allora i pianti sul presunto tramonto dell’alta ristorazione, da dove arrivano?

In cucina ritmi infernali, esaurimenti nervosi e scene di sfruttamento. “Colpa degli anni ’80 e ’90, hanno drogato tutto”

Il peso del “brand”

«La crisi, se c’è, non è di fatturato, ma d’identità» racconta Sonia Ricci, caporedattrice del Gambero Rosso. Perché in molti casi i veri margini di guadagno non sono più generati da un singolo stellato, ma dal brand: il nome dello chef è un marchio. La maggior parte dei ristoratori citati nella classifica Pambianco, spiega Ricci «hanno 3 o 4 ristoranti all’estero, un bar o una serie di locali collaterali, i catering. Una parte del business arriva da consulenze e accordi commerciali».

E un giovane cuoco d’élite che non ha la fama e la caratura imprenditoriale dei nomi citati? «Sempre più spesso giovani ed emergenti vengono accolti da società di hospitality che gli danno la possibilità di aprire il ristorante all’interno degli alberghi. Quello degli hotel è un mercato molto vivace per gli chef che non hanno la possibilità di mettersi in proprio». Tra i nomi del “calciomercato” italiano, diversi hanno lasciato la cucina stellata di un ristorante per trasferirsi tra le pareti più “comode” di una catena alberghiera di lusso: Salvatore Bianco è passato dal Comandante a Napoli all’Hotel Eden di Roma, Luigi Lionetti da Le Monzù di Capri al Vero di Ca’ di Dio a Venezia; Massimiliano Sena ha fatto la spola da un albergo all’altro, dal Four Seasons di Ginevra a Château de Courcelles in Francia. Un altro stellato in rampa di lancio, Antonino Montefusco, è lo chef della Terrazza Bousquet del Grand Hotel Excelsior Vittoria a Sorrento.

Il mondo di sotto

Gli chef emergenti vanno negli alberghi perché le condizioni contrattuali (e di lavoro) sono migliori. La cucina di un ristorante stellato può essere molto diversa da come la si immagina: a volte dietro le quinte c’è l’inferno. Lo chef abruzzese Davide Nanni è un influencer da centinaia di migliaia di follower su Instagram e TikTok. Gira i suoi video di cucina nei boschi, un po’ perché funziona e il personaggio è virale, un po’ perché l’alta ristorazione l’ha fatto fuggire a gambe levate.

Nel libro A sentimento racconta l’esperienza traumatica in un locale londinese di Giorgio Locatelli, il giudice di Masterchef. Poco più che diciottenne, è stato preso di mira e bullizzato dai responsabili della cucina: chef, sous chef e capopartita. Insulti, violenze psicologiche e fisiche (un labbro spaccato con un mazzo di radici), umiliazioni davanti alla compagna. Giornate lavorative da 16 ore e pisolini da 4 minuti sul pavimento, 20 chili persi in 4 mesi. E Locatelli? Secondo Nanni non sapeva cosa succedesse nella sua cucina. L’abbiamo contattato, ma non vuole più parlarne: «Davide ha già detto tutto quello che doveva dire. Preferiamo evitare di esporci ancora», ha risposto il suo staff.

Confessioni di un burn out

I ristoratori sanno essere vendicativi. «Se parli male di uno chef importante, hai finito di lavorare», racconta un giovane cuoco che ha frequentato diverse cucine stellate e vuole restare anonimo. «Il livello di alienazione – dice – ti porta a fare cose senza senso. Una volta un junior sous chef si è tagliato di brutto durante il servizio e invece di fermarsi e farsi cucire, ha cercato di chiudersi la ferita su una piastra rovente. Hai presente come fischia la carne quando la schiacci sulla padella? Un’altra volta si è addormentato ubriaco dentro la cella delle carni. Ci ha passato la notte, non so come non sia morto assiderato».

Poi apre la galleria degli orrori. «La cocaina è alla base delle cucine stellate, credo di averne frequentata solo una dove non girava. In un ristorante spagnolo si “intrippavano” talmente tanto che durante il servizio, col caldo, gli gocciava il sangue dal naso». Il prezzo che si paga a livello psicologico, in contesti di questo tipo, è difficile da quantificare. «Io ho avuto due esaurimenti nervosi, mi fermavo e dicevo “ma cosa stai facendo?’”. Una volta mi è scappato un seme di limone in un piatto di pasta, ci ho pianto per quattro mesi. Mi svegliavo la mattina e vomitavo».

«Ispettori del lavoro? mai visti»

Segni sull’anima e sul corpo. «Ho avuto un incidente in cucina che mi ha fatto tenere una benda sull’occhio ustionato per diverse settimane. Mi potevo fermare in cucina solo per le preparazioni, durante il servizio faceva troppo caldo. Tornavo a casa e mi sentivo in colpa, pensavo di rubare lo stipendio, bastava una battuta a mandarmi nel panico. Quando macini certi ritmi, con quel tipo di pressione, ti viene una specie di sindrome di Stoccolma, non sai di essere prigioniero».

Per vivere così, lavorando anche 12, 13, fino a 15 ore al giorno, guadagnava 1800 euro al mese. La cifra prevista dal contratto nazionale per un capo cuoco. «E per me erano anche tanti. Ho avuto una proposta da uno chef stellato molto famoso, per fare il capo partita a 700 euro al mese. Un’altra star della cucina italiana mi aveva offerto uno stage gratuito. Nei ristoranti si guadagna così, non si rispettano orari e non ho mai visto un ispettore del lavoro. Solo negli alberghi è diverso». E poi il sessismo, altro caposaldo: «Le cucine stellate sono ambienti di un maschilismo devastante… la mano sul culo, le battute a sfondo sessuale… A una che conosco, che faceva la pasticcera, hanno fatto mettere una busta della mondezza addosso per non sporcare la divisa».

Cicatrici

Sarah Cicolini ha 36 anni ed è uno dei volti della ristorazione romana: la sua trattoria moderna, Santo Palato, è stata acclamata anche dal New York Times. Ma pure su di lei la cucina ha lasciato cicatrici invisibili: «Ho lavorato in brigate interamente maschili – racconta – dove la violenza passava soprattutto attraverso le parole. Era la coercizione agli abusi verbali e a dinamiche aggressive, svalutanti, sessiste. In psicoterapia sto facendo un percorso per disinnescare questi traumi, che ritornano e si associano a dolori fisici, come mal di testa e di stomaco».

Il sessismo, le chiediamo, era conseguenza dell’invidia maschile? «Non solo. Quando abbiamo aperto Santo Palato, sono state delle donne a iniziare una sorta di crociata contro di me. Hanno coinvolto anche un cantante indie famoso, facendogli pubblicare una foto con cui sosteneva che avessi copiato un ristorante di suoi amici a Milano. Lui qui non c’era mai venuto». La distanza tra i discorsi sul fine dining e la realtà – tra le star e i lavoratori comuni – è chilometrica. Ma Cicolini conserva una quota di ottimismo: «Il mio obiettivo è stabilire ritmi di lavoro più sostenibili. Il margine economico per noi è stretto, non è realistico ambire a stipendi davvero alti, ma cerchiamo di garantire una qualità di vita decente, che significa due giorni e mezzo di riposo alla settimana».

Per lei è un cambiamento di fase: «La mia generazione di cuochi e imprenditori soffrirà un po’ a livello economico, ma stiamo seminando per creare un sistema diverso, con abitudini normali e un approccio sano verso la cucina, mentre negli anni ’80 e ’90 sono state allevate generazioni di cuochi stanchi, drogati, stressati alla follia. Oggi, secondo me, le cose iniziano a migliorare».

Tra una stella e l’altra, il mondo dell’alta cucina si consuma in una discussione angosciata: il fine dining, la ristorazione d’élite, è in crisi? Ha ancora senso dannarsi per lo stemma Michelin (e da ultimi gli chef del “Giglio” di Lucca hanno detto “basta!” e l’hanno mollata)? A giudicare dai numeri dei più importanti cuochi […]

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