Georgia, a Gori fra i nostalgici di Stalin: “Era un santo, mandato direttamente da dio”
Reportage

Georgia, a Gori fra i nostalgici di Stalin: “Era un santo, mandato direttamente da dio”

Nella città natale del dittatore sovietico, abbiamo seguito una riunione dell'associazione a lui devota. In un trionfo di gadget e ritratti. "I suoi crimini? Non ci sono statistiche"

di Eleonora Vio | foto di Nina Vaxhanski

C’è un freddo pungente. Il Gps indica che sono arrivata, ma la strada trafficata, piena di multistore e insegne fluorescenti, non combacia con quello che miGeorgia è stato venduto come un ritrovo di vecchi nostalgici. Finché una signora con i capelli grigi e ispidi, avvolta in una stola leopardata, non mi fa cenno di seguirla. Varchiamo insieme le porte scorrevoli di un centro commerciale, percorriamo un corridoio lungo e anonimo e spuntiamo su un cortile malandato. «Ecco la nuova sede della Società degli eredi ideologici di Stalin», mi dice Tamar Qarqishvili, indicando una casetta con il tetto in lamiera e i muri scrostati. Incollato a una finestra c’è un piccolo ritratto del dittatore sovietico in tenuta militare, l’espressione sorniona, semi nascosta dal baffo alla tricheco che, all’epoca, aveva lanciato una moda.

All’interno la temperatura è persino più bassa che fuori. Attorno a un tavolone di legno pesante siede un gruppo di vecchietti stretti in cappotti di alcune taglie in più. A vegliare su di loro ci sono enormi ritratti del loro idolo: Josif Stalin, che assunse le redini dell’Unione Sovietica nel 1922 e regnò incontrastato fino alla morte, nel 1953. Se altre repubbliche post sovietiche hanno fatto di tutto per cancellare la memoria di uno degli uomini più temuti della storia, proprio la Georgia che per prima scese in strada per reclamare l’indipendenza dall’Unione Sovietica, mantiene la posizione più ambigua.

Fra l’Europa e l’Unione sovietica

Questa ambivalenza si riscontra in modo particolare a Gori, cittadina a un’ottantina di chilometri da Tbilisi senza particolari attrattive, se non che, nel lontano 1878, diede i natali a Ioseb Jugashvili, noto ai posteri come Josif Stalin. Sebbene le nuove generazioni siano proiettate verso il futuro e verso l’Europa, il fatto che un personaggio così iconico e potente sia cresciuto qui da una famiglia di umili origini inorgoglisce ancora tante persone. «Alcuni non sono riusciti a venire, perché si è rotta la rete idrica, altri sono troppo vecchi e non ce la fanno a muoversi, e poi c’è chi ha deciso di prendersi una pausa dalla politica dopo le ultime elezioni», spiega Qarqishvili, come a giustificare l’atmosfera decadente. Se nei primi anni dopo la fondazione, nel 1996, la Società contava migliaia di iscritti, oggi i membri non superano la quarantina.

Anche così, non hanno mai smesso di riunirsi per discutere i fatti della settimana, e per capire come diffondere “il messaggio stalinista”. Gli incontri avvengono il sabato a pranzo. Rispetto ai banchetti del passato, sul tavolo ci sono solo scarni cestini di mele, l’altro simbolo di Gori. Chi fa parte della Società è anche iscritto al Partito comunista unito georgiano nato nel 1994, dopo il crollo dell’Urss. Ecco perché, a distanza di qualche settimana da elezioni parlamentari che, seppur tra brogli e manipolazioni, hanno confermato la vittoria del partito filorusso Sogno Georgiano dell’oligarca Bidzina Ivanishvili, l’ordine del giorno è ancora l’esito del voto. «So che siete abbattuti perché, pur avendo raccolto più firme del necessario, la Commissione elettorale ci ha squalificati», arringa Qarqishvili. «Insisterò per avere spiegazioni».

Gli incontri sono ogni sabato a pranzo in una casetta dai muri scrostati

Con tono solenne, prende la parola l’ex esattore delle tasse, Alexi Miqelashvili, che indossa la divisa blu degli impiegati di una volta: «Panteleimon Giorgadze è stato il fondatore su scala nazionale, ma noi di Gori dobbiamo la nostra esistenza a Nazi Stefanishvili, che è mancata un anno fa e ancora ci guida da lassù». Mentre scandisce il suo nome, si volta reverenziale verso un fotomontaggio che mostra una vecchina canuta, irradiata da una luce divina e incorniciata da una corolla di fiori e frutti fluorescenti. La leggenda narra che l’idea di creare la Società sia venuta a Nazi, al termine di un turno in fabbrica, quando le si avvicinò un topolino con in bocca una moneta con l’effigie di Stalin.

Da quel momento, sentì che Stalin avrebbe vegliato su di lei. In cambio, doveva tramandarne la memoria. «È una lettura romantica che lei stessa amava raccontare. In realtà suo padre fu ucciso in guerra prima che lei nascesse, e fu tirata su dalla madre e dalla nonna che stravedevano per Stalin e non facevano che parlarle di lui», racconta la nuora, Khatuna Gurashvili, che incontro nella villa gigantesca e fatiscente, dove Nazi trascorse tutta la vita. «Spesso usciva per comprare cibo e medicinali e tornava senza soldi, carica di libri, stampe, e quadri su di lui». Oltre che per organizzare gli eventi del gruppo, Nazi investì gran parte dei suoi risparmi nel creare una wunderkammer in onore del dittatore che, stracolma com’è di suppellettili e memorabilia, sembra il perfetto connubio tra un santuario e un museo privato.

Le effigi del leader si mescolano ai simboli della religione che lui perseguitò

Una cosa mi colpisce. Colui che si era distinto per la ferocia contro i luoghi sacri della religione cristiana ortodossa (e non solo) è collocato al fianco di centinaia di santini e icone. Spiega Tea Mamatsiani, la più giovane, ma anche la più radicale, tra i membri della Società: «Il nostro Paese è la culla della Chiesa ortodossa. Può essere che Stalin se la sia presa con alcuni individui, ma mai con la nostra fede», racconta, tenendo le mani giunte a mo’ di preghiera. «Stalin ha studiato in seminario e ha eseguito per tutta la vita solo il volere di Dio. Sul letto di morte gli trovarono persino una croce al collo». Ribattere è inutile e mi guardo intorno in cerca di un appiglio. Miqelashvili, portavoce della Società, non vede l’ora di approfittarne. «Perché amiamo così tanto Stalin?», invoca teatralmente. «Perché ha trasformato un Paese di contadini in una potenza nucleare e ha sconfitto la Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale, portando la pace».

Il grande benefattore

La più anziana del gruppo, Mariam Gigolaevi, una donna minuta con i capelli bianchi tirati all’indietro con un cerchietto, è l’unica a ricordarsi com’era la vita ai tempi di Stalin. «Solo a Gori aprì più di quaranta fabbriche e, non appena terminata la scuola, tutti venivamo assunti lì dentro», racconta, con la voce flebile come un sussurro. «Il giorno della sua morte la gente era disperata. Con Stalin la Georgia era un Paese migliore». Nonostante tenti di incoraggiarla a continuare, Lali Giguashvili, con i capelli rosso fuoco, il rossetto in tinta, e una vistosa pelliccia, si intromette. «Benedetto il socialismo, quando tutti avevamo un lavoro e uguali diritti», mi urla nelle orecchie. «Guardate ora, come siamo ridotti!». Quindi, come se non avesse mai interrotto il discorso precedente, Mamatsiani aggiunge: «Stalin era un santo, mandato direttamente da Dio per fare miracoli nell’istruzione, nella medicina e nella tecnologia. Fece da mediatore tra le nazioni e agì sempre nel rispetto della legge».

Purtroppo la storia ci insegna che Stalin è stato anche l’artefice di massacri a sfondo etnico e razziale, ha costretto intere popolazioni all’inedia, ha sterminato e deportato nei gulag milioni di persone, tra cui oppositori, intellettuali, uomini di chiesa… Come ignorare tutto questo? I presenti non sembrano irritati dalla mia domanda e fanno cenno a Miqelashvili di prendere la parola. «Non ci sono statistiche al riguardo», afferma, ricevendo il plauso degli altri. «Quel che sappiamo è che non era nel suo carattere commettere quei crimini e, se si macchiò di qualcosa, lo fece per il bene del Paese». Resta il nodo delle responsabilità del Partito comunista georgiano, cui la Società si ispira, nel massacro di Tbilisi la notte del 9 aprile 1989. Quando i leader del partito incoraggiarono l’Armata Rossa a sgomberare i manifestanti anti-sovietici e a commettere, di lì a poco, una strage. «Una delle vittime fu una mia cara amica, avvelenata dal gas lacrimogeno e sfigurata dalle lame dei soldati», racconta singhiozzando Khatuna.

Il vicino ingombrante (e invadente)

Fisso le bandierine russa e georgiana disposte una affianco all’altra sul tavolo. Il fatto che l’organizzazione spinga apertamente per rapporti più stretti con la Russia, che controlla militarmente il 20% del territorio georgiano dal 2008, e continua a influenzare il paesino caucasico, è uno dei motivi per cui «molti condividono le nostre idee, ma preferiscono non dirlo apertamente», conferma Miqelashvili. «Prendi questo spazio. Ci è stato offerto dall’oste di uno dei ristoranti più in di Gori. L’ha chiamato “Joseph”». Quando ci vado, il proprietario rifiuta di parlarmi, ma non è solo il nome del ristorante a destare sospetti. Sotto quella che sembra un’anonima caffetteria c’è un lungo corridoio da cui si aprono sale brulicanti di ospiti e, da lì, si sbuca in uno stanzone. Al centro si trova un tavolo in legno massiccio e intorno quadri, statuette e orpelli, raffiguranti varie versioni del dittatore.

La bandierina russa vicino a quella georgiana. Ma i rapporti con l’ex Urss sono controversi

È difficile stabilire quanti ammiratori di Stalin vivano ancora a Gori, ma una cosa è certa. Che sia orgoglio patriottico od opportunismo, il suo profilo tira tantissimo. Oltre ai negozi di gadget e souvenir che vendono persino bottiglie di vino con il suo volto, una statua che lo raffigura si trova al centro del più grande parco pubblico e la strada principale porta il suo nome. La vera calamita per i turisti, provenienti in particolare da Russia e Cina, è il museo che Gori gli ha dedicato nel 1957, riuscendo – non si sa come – a evitare il processo di destalinizzazione di Nikita Kruscev. L’unico leader che ha cercato di cambiare la reputazione della città è stato l’ex primo ministro, ancora all’opposizione, seppur dal carcere, Mikhail Saakashvili. Con una mossa impopolare, all’alba del 25 giugno 2010 fece demolire la gigantesca statua di Stalin all’ingresso del municipio, che da allora è abbandonata a faccia in giù nel cortile di una vecchia fabbrica.

È giunto il termine della sessione e Miqelashvili si schiarisce la voce: «Ivanishvili ci ha chiesto di dargli quattro anni prima di decidere tra “bene” e “meglio”. “Bene”, per lui, non può che voler dire tornare al vecchio pensiero sovietico». Sorrido, ma i suoi compagni applaudono. Mentre Putin ama paragonarsi a Stalin e adotta le sue politiche imperialiste, il governo di Sogno Georgiano non si è mai espresso a favore del leader sovietico. Allo stesso tempo, stringe rapporti sempre più stretti con la Federazione russa. Fatico a pensare che quei vecchietti con le spalle curve intenti a riempire i sacchetti di mele, rappresentino una minaccia. Quando incrocio per l’ultima volta quello sguardo beffardo che mi osserva dall’alto, però, sento un brivido lungo il corpo.

C’è un freddo pungente. Il Gps indica che sono arrivata, ma la strada trafficata, piena di multistore e insegne fluorescenti, non combacia con quello che miGeorgia è stato venduto come un ritrovo di vecchi nostalgici. Finché una signora con i capelli grigi e ispidi, avvolta in una stola leopardata, non mi fa cenno di seguirla. […]

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