C’è una bellissima parola greca, che ci invita a riflettere per la sua perenne attualità: è anadasmòs, cioé redistribuzione. Con il suo effetto generatore di panico (che sfiora ridicolo e sdegno per il suo violento esser sballottato tra il significato in campagna elettorale e quello post-elezioni) l’abbiamo sentita pronunciare (recentemente, ma, in rari casi) solo da qualche mente illuminata (come Bersani e Montanari). Uno dei primi casi al riguardo si verifica nell’Atene tormentata dei primi anni del VI secolo (circa il 600) a.C. Cittadini di pieno diritto, gravati da debiti, erano stati venduti come schiavi, dal momento che non possedevano altro che il loro corpo come garanzia nei confronti dei creditori.
Tassare i ricchi per sostenere i poveri? Mai stato facile. Pure Solone disse no
Verso il 590 a.C., alla fase culminante di un situazione insostenibile, arriva al potere, come arconte, il saggio Solone, il quale con le sue riforme restituisce la libertà a tutti i cittadini. Ma si guarda bene di dare risposta all’altra sacrosanta richiesta: i cittadini indebitati chiedevano l’anadasmòs, perché un freno alla loro povertà poteva venire solo dalla redistribuzione della ricchezza. Ora, in una società che non è ancora fondata su un’economia monetale, la vera ricchezza è la terra. Infatti, la formula piena è: ghes andasmòs (redistribuzione della terra).
Ma il saggio governante dice di no, non poteva fare altrimenti: i poveri dovevano accontentarsi dell’esser stati affrancati e basta. Le riforme soloniane sono citate dallo stesso autore in forma poetica (elegie), non in prosa, com’era costume del tempo; a noi sono giunti frammenti tramandati in citazioni di epoca più tarda, ma una scoperta archeologica ci riporta all’età arcaica. Su di una laminetta di bronzo trovata a Himera, città greca nel nord della Sicilia, leggiamo il testo di une legge del VI secolo a.C. con la chiara menzione della anadasmòs. Il testo è lacunoso, ma si comprende che la legge arrivava a punire con la pena di morte chi solo avesse pronunciato quella parola.
E non vogliamo ricordare Tiberio e Gaio Gracco? I celebri fratelli (vissuti nel II secolo a.C.), vanto della loro madre Cornelia, esponenti di un’aristocrazia illuminata, avevano compreso bene che la povertà non è solo un’onta, ma una piaga che può minare la saldezza dello Stato, come aveva capito nel IV secolo a.C. Archita di Taranto, politico, matematico e filosofo, amico di Platone, che governò la polis e si distinse anche come capo militare. A lui riuscì l’impresa di attuare riforme al punto da essere lodato da Aristotele e indicato come esempio.
I Gracchi, invece, furono assassinati entrambi. L’oligarchia della classe senatoria non ammetteva sgarri. I poveri dovevano subire quelle perniciose conseguenze così efficacemente tracciate da Vannucci su Millennium di novembre. Ma ai poveri romani rimaneva una chance: la mobilità sociale che permetteva a chi era capace soprattutto di tessere inganni, e inventare trucchi, di diventare ricco a dismisura. Come il Trimalcione narrato da Petronio con la cena che è una delle descrizioni più spettacolari del cafone arricchito, la cui volgarità si palesa attraverso il cibo.
C’è una bellissima parola greca, che ci invita a riflettere per la sua perenne attualità: è anadasmòs, cioé redistribuzione. Con il suo effetto generatore di panico (che sfiora ridicolo e sdegno per il suo violento esser sballottato tra il significato in campagna elettorale e quello post-elezioni) l’abbiamo sentita pronunciare (recentemente, ma, in rari casi) solo […]