Cibo e terra, terra e latifondo, latifondo e sangue. Il 10 agosto 1867, nei pressi di San Mauro in Romagna, due sicari uccidono a schioppettate Ruggero Pascoli, padre del futuro poeta Giovanni e amministratore della tenuta La Torre. Il delitto è celebre, a scuola ce lo facevano trangugiare a cucchiaiate. “Oh cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna”. Quella tenuta apparteneva, come migliaia d’ettari sparsi per l’Italia, al principe Alessandro Torlonia (1800-1886), banchiere e latifondista, che dicevano l’uomo più ricco d’Italia. Ruggero Pascoli tornava da Cesena: doveva incontrarsi con un emissario di Torlonia che avrebbe dovuto confermargli l’incarico e che non si presentò all’appuntamento. Si sospettò un movente politico: in Romagna, terra di repubblicani, Ruggero Pascoli era un monarchico. Un traditore, arreso al nuovo corso. Tre processi non riuscirono a trovare colpevoli.
L’omidicio di Ruggero Pascoli, padre del poeta. Complicità del nobile e omertà sul processo
Eppure i nomi degli assassini erano sulla bocca di tutti: soprattutto quello del mandante, il possidente Pietro Cacciaguerra di Savignano. Che aveva fatto assassinare il padre del poeta per succedergli come amministratore della tenuta. Scriveva Giovanni Pascoli a un amico: “Nessuna ragione fu possibile trovare all’orribile delitto. Restò e resta, unica e indistruttibile nel nostro cuore e nella coscienza di tutti in Romagna, l’ipotesi che lo facesse levare di mezzo chi voleva succedergli nel posto… Ma quest’uomo è divenuto ricco e potente; ebbe subito la fiducia e la stima del vecchio principe, sebbene in religione e in politica fosse agli antipodi (ma si sa: fingeva) e, non è moltissimo, anche una cordiale stretta di mano del Re. Nessuno quindi osa dire o deporre contro di lui”.
La colpevolezza di Cacciaguerra è emersa negli ultimi anni grazie al lavoro della storica Rosita Boschetti, direttrice del museo Pascoli, e in un “processo popolare” tenuto a San Mauro nel 2012 il pm Ferdinando Imposimato ha accusato il principe Torlonia di connivenza nell’assassinio: meglio affidarsi, nella gestione della sua tenuta romagnola, a un ras locale come Cacciaguerra, ricco e spregiudicato abbastanza da uscire indenne anche dall’accusa di brogli elettorali: il suo candidato, Ignazio Guiccioli, sarebbe diventato ministro delle Finanze. Quanto al principe Alessandro Torlonia, la spregiudicatezza non gli mancava: soffiò il posto di banchiere al fratello maggiore, trafficò con il debito pubblico dello Stato Pontificio accumulando ingenti ricchezze salvo convertirsi ai Savoia, fece bonificare tra il 1856 e il 1878 il lago del Fucino in Abruzzo, il terzo dopo quello di Garda e il Maggiore, ricavandone 14 mila ettari di terra.
“In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito”. scriveva Ignazio Silone in Fontamara. Appena un gradino sotto Dio, poteva il principe opporre obiezioni all’uccisione di un amministratore scomodo?
Cibo e terra, terra e latifondo, latifondo e sangue. Il 10 agosto 1867, nei pressi di San Mauro in Romagna, due sicari uccidono a schioppettate Ruggero Pascoli, padre del futuro poeta Giovanni e amministratore della tenuta La Torre. Il delitto è celebre, a scuola ce lo facevano trangugiare a cucchiaiate. “Oh cavallina, cavallina storna, che […]