Il lardo di Colonnata, i vini del Monferrato, il parmigiano reggiano, il radicchio trevigiano…. Quando si parla di eccellenze nostrane raramente si pensa alle uova di storione: insomma, al caviale. Anzi. Eppure l’Italia è il secondo produttore mondiale di caviale – primo è la Cina – e in crescita: ne abbiamo prodotte 62 tonnellate nel 2022, 65 nel 2023. Eppure. “Questo governo difende i lavoratori molto di più della sinistra al caviale” ha detto la premier Giorgia Meloni – che pur ha creato un ministero “delle imprese e Made in Italy” – il 9 novembre, recuperando una metafora più che abusata. “Io di caviale non ne ho mai mangiato” ha chiarito in risposta la segretaria del Pd Elly Schlein. Morale di queste metafore? Il caviale è un cibo altro, un cibo di élite diverse da noi, con cui nulla abbiamo a che fare. E invece vendiamo caviale ovunque, in tutta Europa, negli Usa, nel Golfo arabo, in Sudamerica, in Giappone, in Georgia. Non più in Russia e Iran, ma solo a causa della guerra commerciale. «Dove c’è un popolo altospendente, noi ci siamo» spiegano all’unisono i produttori. Ma come è successo che un prodotto tradizionalmente associato a banchetti caucasici sia divenuto un’eccellenza nostrana?
Premessa: il caviale è, semplicemente, uova di storione. Sono costose, anche perché, a seconda della specie, richiedono anni per essere prodotte: il Beluga, in più ambito, ne impiega 20, altri 6, 8, 12. Lo storione è un nobile pesce “preistorico”, cioè evolutosi tra 250 e 200 milioni di anni fa, e arrivato in questa forma fino a noi: vive fino a cent’anni. Gli storioni sono da sempre presenti nel bacino del Po, fin dal ’500, ci sono sagre ancora attive nel Ferrarese. L’ambiente era favorevole. Ma la vicenda della produzione italiana di caviale commerciale è molto più recente, ed è andata più o meno così.
Tra gli anni ’80 e ’90, alcuni allevamenti di pesce (trote, anguille…) della Lombardia e del Veneto rendono sempre meno. E allora l’intuito imprenditoriale si mischia con il caso. Il primo allevamento è quello dell’Agroittica Lombarda, che nel 1981 porta a Calvisano un biologo marino russo (ma emigrato negli Usa, il dialogo coi sovietici non era affatto semplice) insieme a un paio di storioni americani. Gli storioni si trovano piuttosto bene, e nel 1992 ecco la prima riproduzione in cattività. Altri allevatori italiani fanno scelte simili, poi nel 1998, la svolta: cacciare lo storione diventa illegale. Una mattanza in particolare nel Mar Caspio era in corso da tempo, e allora la Cites (Convenzione di Washington sulle specie a rischio di estinzione) vieta la pesca dello storione selvatico e ne limita la commercializzazione.
Le aziende italiane che avevano già avviato produzioni con popolazioni in cattività autosufficienti, si scoprono in una posizione unica e fortunatissima: Agroittica Lombarda (che produce il caviale Calvisius), da sola, ormai supera perfino la produzione dell’Iran, con 42 milioni di fatturato nel 2022 e sedi a Parigi e negli Usa. In totale il fatturato degli italiani arriva intorno ai 60 milioni, con circa 250 persone impiegate. Una crescita che ha del sorprendente nonostante le restrizioni post invasione dell’Ucraina – i russi sono grandi consumatori – e l’aumento dei prezzi: dati i tempi di produzione, è impossibile aggiornare l’offerta in base alla domanda del mercato. Il tutto con un regime fiscale, quello del reddito agrario, basato sui terreni e i quantitativi di pesce allevato, non sui profitti: l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che la produzione del caviale è equiparata al normale allevamento del pesce. La tassazione è quindi su base catastale, se una parte del mangime per i pesci arriva dai terreni agricoli lì presenti. «Un regime molto favorevole se un’azienda fa utili, chiaramente. Ma se gli anni sono storti possono sorgere i problemi» spiega Luigi Dall’Oca dello studio specializzato Tosoni, di Mantova. Per il caviale italiano, per ora di anni neri non se ne vedono.
In Italia comunque alleviamo ormai storioni di origine caucasica, russa, americana, danubiana… Il processo di produzione del caviale non piacerà certo agli animalisti: la femmina, per recuperare le uova, va macellata. Ma, spiegano i produttori, ogni parte dello storione viene utilizzata, sia nell’alimentazione, sia in altre produzioni, come la farmaceutica. «Per noi è un business, ma senza i miei colleghi itticoltori credo non ci sarebbe più storione sulla terra» spiega Domenico Meduri, amministratore delegato di Caviar Import, azienda che ha stabilimenti tra il mantovano e il veneto, specializzata nella produzione del caviale Beluga con il brand Cru Caviar.
Oggi chi vuole vendere caviale di storione selvatico, o è un ciarlatano, o un bracconiere. Come detto, l’Italia è il secondo produttore al mondo, il primo in Europa: davanti c’è solo la Cina, 120 tonnellate. Ma gli intenditori assicurano: la qualità e la sostenibilità del prodotto italico è maggiore. Per carità, come chiedere all’oste se il vino è buono, ma «abbiamo le regole più restrittive di tutto il mondo. Controlliamo ogni aspetto della filiera, le norme ci impongono di avere un prodotto buono. Non è paragonabile a quello cinese» è il punto di Meduri. Ma lo comprano, appunto, all’estero – da Doha a Manila, da Rio a Johannesuburg – per oltre l’80%. E l’Italia? «Qui è diverso, è vero, ma dobbiamo farci conoscere. Si tratta di una questione culturale, come il vino ha prezzi diversi, così il caviale» sostiene Meduri. Prezzi che variano dai 50 ai 250 euro per una lattina. La Francia, che ne produce ben di meno, ne consuma 5-6 volte di più. «È una questione di conoscenza, anche con i ristoranti, devi provare a farlo capire allo chef a utilizzare il prodotto. Si creano ancora malintesi e pregiudizi» conclude l’ad. Come quello secondo cui, chissà perché, il caviale sia una cosa che fa perdere voti. Certo, non ha fatto perdere posti di lavoro.
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