Robert Gligorov, “un mondo di  scatole cinesi”. Tuffi, disegni e videoclip

Robert Gligorov, “un mondo di scatole cinesi”. Tuffi, disegni e videoclip

Dalla ex Jugoslavia alla piscina e ai fotoromanzi, dal provino con Fellini ai Blue Vertigo, dalle installazioni alla body art. E poi le mostre organizzate nelle discoteche e negli aeroporti. "Il crollo delle torri gemelle? Un gesto artistico terribile"

di Gabriele Miccichè

Han rubato stanotte alle tre il Duomo di Milano! Quanta gente fra sé, si domanda: Com’è? Porca l’oca, ma il Duomo dov’è?”. Sono le parole di un celebre brano del 1948 di Luciano Tajoli, cantante melodico che con umorismo esorcizzava lo scampato pericolo dei bombardamenti di pochi anni prima. A rendere reale, almeno da un punto di vista artistico, la canzone è il lavoro visionario e surreale di un personaggio davvero singolare – artista visivo, musicista, produttore, fotografo, illustratore… – nel panorama italiano: Robert Gligorov, che attualmente espone allo Stedelijk Museum di Breda, ha realizzato una bellissima veduta di piazza Duomo, ma senza… il Duomo.

Classe 1960, macedone – «ex Jugoslavo», mi corregge lui – il suo approdo all’arte, ormai una trentina d’anni fa, fa capo a una vicenda umana che vale la pena ripercorrere. «Sono cresciuto in Croazia con mia madre, che però a un certo punto non poté più tenermi. Mi affidò a una famiglia dell’isola di Brač (Brazza in italiano). Contadini con quattro figli. Lì crebbi in una dimensione felice, idilliaca quasi». Poi si apre una parentesi dickensiana, il padre lo va a riprendere, quando la madre lo viene a sapere se lo riprende e lo affida ai nonni, musicista lui, cantante lirica lei. Poi finalmente a 14 anni la madre lo porta con sé in Italia. «A parte le grandi difficoltà a scuola con la lingua e un certo disagio per la nuova situazione, mi rendo conto, forse paradossalmente, che con mia madre non ho più molto in comune».

Se ne va quindi, a sedici anni, di casa. Comincia un periodo di difficoltà economiche, logistiche, individuali. «La mia salvezza fu lo sport. Cominciai una carriera di tuffatore dalla piattaforma dei 10 metri. Fino a 21 anni sono stato un uomo della piscina. Lì ho trovato un’identità e la stabilità». Milano intanto si trasforma – siamo agli inizi degli anni Ottanta – e offre nuove possibilità. Gligorov intraprende la carriera di modello. «Comincio a guadagnare, molto. Con un contratto con la Mondadori la mia vita cambia radicalmente». Ma dopo due anni il contratto non gli viene rinnovato. «Decido di andare a Roma ed entro in contatto con la casa editrice Lancio. Sì, l’editore dei fotoromanzi». È la stagione d’oro per i fotoromanzi in Italia, un fenomeno mai abbastanza approfondito: in un’Italia scossa dai movimenti politici, dagli anni di piombo, dalla crisi, queste riviste svenevoli e lacrimevoli, di un sentimentalismo proverbiale coprono un’esigenza di normalità che la maggioranza della stampa dell’epoca ignora. «Comincio con delle particine, poi uno dei responsabili punta su di me. Nei successivi 14 numeri mi dedicano otto copertine». È nel suo ambito un successo clamoroso, un preludio al cinema. Di serie B probabilmente.

“Non avere uno stile definito mi sembra un pregio. Non siamo più ai tempi di De Chirico“

«Ho fatto tra l’84 e l’86 undici film, tra cui La schiava di Caligola e Deliria» precisa Gligorov sorridendo. «Ma ho lavorato con registi come Lucio Fulci, Lorenzo Onorati, Michele Soavi, quel robusto cinema di mestiere che gli americani ci invidiano. Poi provini con Fellini, Comencini. Una puntata di una serie prodotta da Cecchi Gori e mai andata in onda». Ci prova anche con i fumetti. «Be’ lavorando con Lanciostory… solo che non ero molto bravo. Mi facevo correggere i disegni da un professionista e li vendevo come miei». Un momento importante però nel suo percorso. Fin dall’infanzia Gligorov disegna compulsivamente, copia e inventa i suoi fumetti preferiti. Questa consuetudine non lo abbandonerà mai. «Anche quando facevo l’attore, nel tempo libero, disegnavo continuamente. È un’abitudine che coltivo ancora adesso. Dietro ogni mia opera ci sono centinaia di disegni». Comunque l’esperienza romana sembra volgere alla fine. Torna a Milano e si accosta quasi naturalmente al mondo discografico. «A Roma avevo imparato un sacco di cose: a fotografare, avevo comprato una Hasselblad, a girare videoclip, a guardare la grafica dei giornaletti e dei manifesti per il cinema». È l’epoca di Mtv e a Milano le case discografiche sono in grande attività. «Comincio a fare copertine per i cd di Gino Paoli, Zucchero, Paola e Chiara, Franco Battiato, Milva. Sting».

Con Sting, Gligorov inizia un rapporto particolare. «Gli dedico un libro che pubblica Rizzoli. Quando il cantante arriva a Milano per una tournée, mi presento al Principe e Savoia, l’albergo dove so che si sarebbe fermato. Incontro il suo manager e gli mostro il libro. Lui chiama Sting che, non me lo aspettavo, scende. Da lì è nata un’amicizia vera, che dura tuttora».

Intanto l’artista allarga la sua attività in ambito discografico. Conosce i Blue Vertigo (la formazione di Morgan) di cui Gligorov diventa talent-scout e produttore. «Fu una bella esperienza, molto performativa. A fianco del lavoro con il gruppo continuavo a girare videoclip. Ma mi sentivo di essere in prestito. Cominciavo a sentire forte l’esigenza di cominciare finalmente a lavorare per me stesso e di lasciare andare un lavoro che in definitiva finiva per accontentare soltanto il mondo della pubblicità. Nel 1996 decisi che ancora una volta andava mollato tutto».

A Roma avevo imparato a fotografare, a girare videoclip e guardare la grafica”. E poi è arrivata Mtv

L’occasione è l’amicizia con un fotografo e artista che lo avvicina al mondo dell’arte, una sfera espressiva che Gligorov, che all’epoca ha 36 anni, non ha mai praticato. «Ho conosciuto Carlo Benvenuto ed è grazie a lui che abbandono definitivamente il mondo della discografia e dei videoclip e comincio ad accostarmi al mondo dell’arte. Prendiamo uno studio insieme e cominciamo». Ma cosa? Gligorov, abbiamo visto, è una persona di eccezionale caparbietà. «Studio molto. Non è solo l’ambiente, è l’arte stessa che mi affascina moltissimo. Ma mi rendo conto che entrare è difficile. Mi chiederanno, ma alla tua età, dove sei stato finora?». L’artista ha uno sguardo potremmo dire vergine. Si rende conto che l’ambito a cui si è accostato può risultare molto angusto. Una delle urgenze che immediatamente si affacciano alla sua pratica è quella di uscire dalle gallerie, svecchiare il sistema così come è. Oggi l’uso di spazi alternativi è abbastanza diffuso, ma trent’anni fa non ancora. Decide di organizzare delle mostre d’arte negli aeroporti, nelle stazioni, in libreria. I suoi contatti gli permettono di coinvolgere uno sponsor importante, la Philip Morris. Con i critici Gianni Romano, Cristina Perrella, col gallerista Massimo De Carlo si mette al lavoro. Il successo è immediato. Tra le altre si organizza una mostra di video alla discoteca Atlantique di Milano, la rivista Max, allora forse il periodico più trendy del panorama editoriale italiano, gli dedica venti pagine.

«A questo punto mi dico “come minimo devo partecipare anche io”, così in un certo senso mi sono autoraccomandato e inserito nelle iniziative successive».

L’arte di Gligorov fa in un certo senso tesoro di tutte le sue esperienze precedenti. Il risultato è l’espressione di un mondo estremamente composito in cui realtà e surrealtà convivono, in cui trovano posto le tracce di una vita: dal socialcomunismo ai tuffi in piscina, dal rutilante mondo di Cinecittà all’aspra realtà della macchina industriale milanese. «Naturalmente mi cambia la vita. Ancora mi trovo nelle condizioni di autodidatta, ma la mia sembra finalmente una scelta che mi rende più libero, meno vincolato. E comincio un lavoro importante su di me che è l’estensione naturale delle mie letture, dei miei studi sull’arte. Mi sembra un pregio quello di non avere uno stile definito, di non essere immediatamente riconoscibile».

Ma rapidamente la sua cifra diventa inconfondibile. «Senza volerlo intraprendo una via verso l’arte concettuale e verso la body-art. Il mio obiettivo è quello di tornare a divertirmi con il mio lavoro, di fare le cose con piacere, anche se all’inizio alcune opere risultano molto forti, almeno per l’epoca». Come sempre è un percorso molto rapido. Pochi mesi dopo l’incontro con Carlo Benvenuto l’artista comincia a esporre. «Ho lavorato molto su me stesso, non soltanto sul mio corpo. È stata una vera autoanalisi: le lingue che parlo e ho parlato, il rapporto con mia madre, l’essere apolide, senza famiglia, il rapporto con il mondo animale».

E cambia il suo atteggiamento verso il mondo esterno, adesso molto più intellettuale, mutuato da episodi artistici, dalle performance, da un’atmosfera più rarefatta, riflessiva. «Anche il mondo dell’arte è fatto di scatole cinesi, come nel cinema, a Roma. C’è la serie A, la B, la C. Ma la riflessione sull’arte consente aperture per me finora impensabili. Un esempio di cui non mi vergogno. Il crollo delle Torri Gemelle, oltre a un crimine immane, è un gesto artistico terribile, mastodontico. Qualcosa che non ti aspetti come trovare un fungo alto sei metri in un bosco». Dopo tutte queste esperienze è inevitabile chiedere qual è il suo metodo. «Oggi l’arte è il prodotto di uno sforzo collettivo, anche a livello progettuale. Non è un fatto esclusivamente tecnologico. Quando faccio un video, un disco, quando produco una fotografia è il risultato del lavoro di un team. Non siamo più ai tempi di De Chirico, del gesto solitario di un genio. Ma l’arte non un prodotto industriale. È più complesso. Alla fine di una mostra la domanda “come è andata?” non ha più senso. Nello sport lo sai: chi vince ha ragione. Nell’arte no».


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