A chi volesse capire perché Pd e FI hanno perso le elezioni, oltreché per le politiche antisociali che hanno impoverito i poveri e arricchito i ricchi, penalizzato gli onesti e premiato evasori e tangentari, suggeriamo due letture. La prima è una telefonata intercettata dalla Procura di Bergamo fra due albanesi che concordano rapine nelle stazioni di servizio: “Vieni in Italia a rubare, tanto qui non ti succede niente: se proprio ti va male, ti fai una notte in carcere e poi esci”. Il procuratore Walter Mapelli conferma: “All’estero sono ben informati sul nostro quadro normativo e vengono a delinquere in Italia. Se un ladro è sorpreso a rubare in un appartamento e non riesce a fare il colpo, l’arresto in flagranza per il tentato furto è obbligatorio, ma la custodia in carcere non è prevista. Dunque viene arrestato e subito scarcerato. E, se anche viene condannato in via definitiva, avrà la pena ridotta fino ai due terzi, cioè sotto i 4 anni, e non la sconterà in carcere”. Per scoprire il perché, ecco la seconda lettura: il decreto attuativo della “riforma penitenziaria” Orlando, appena varato dal fu governo Gentiloni, degno coronamento di 40 anni di decarcerazione, che si spera verrà stoppato dal nuovo Parlamento e riscritto dal nuovo governo. Oltre ad alcune buone norme sulla salute e l’affettività, a nuovi spazi per gay e madri detenute, la sostanza è micidiale: sarà ancor più difficile mettere o tenere dentro i delinquenti (cioè i condannati definitivi). Un gentile omaggio pure per mafiosi e terroristi.
Il ministro Orlando nega: “Non ci sono automatismi, i benefìci saranno concessi dai giudici di sorveglianza caso per caso” (come se lo scarso personale di polizia e magistratura potesse esaminare le condotte dei singoli detenuti). Dunque “non uscirà nessuno” (e allora, se non cambia nulla, perché allargare un’altra volta le maglie?). In realtà questa è la quarta legge svuotacarceri in 7 anni, dopo quelle dei governi B., Monti e Letta. Queste, per superare la solita emergenza del sovraffollamento, alzarono provvisoriamente da 3 a 4 anni il tetto di pena sotto cui si va ai domiciliari o ai servizi sociali anziché in galera o, se si è già lì per condanne superiori, si esce per scontare il resto a casa. Così scarcerarono migliaia di detenuti e ne lasciarono a spasso altrettanti. Ma i competentissimi legislatori non adeguarono il resto delle normative, creando un vuoto che ora la Consulta ha riempito, imponendo di sospendere l’ordine di carcerazione per tutti i condannati a pene totali o residue fino a 4 anni. E ora il governo ormai defunto, con un consenso intorno al 21 per cento, che fa?
Invece di tornare almeno al limite dei 3 anni (già abnorme: le condanne sopra i 3 anni, con tutte le attenuanti e gli sconti dei nostri codici-colabrodo, sono rarissime), decide definitivamente che chiunque sia condannato a meno di 4 anni resta libero e fa domanda per i domiciliari (o, sotto i 2, per i servizi sociali). Che poi sono puramente teorici: se uno evade per commettere altri delitti (o resta a casa e di lì spaccia droga, molesta la figlia, picchia la moglie, incassa mazzette, organizza truffe o estorsioni, fa stalking telefonico), di solito non se ne accorge nessuno: ci vorrebbero decine di migliaia di agenti per controllare tutti i detenuti a domicilio. La norma si ispira a una teoria demenziale, dunque molto diffusa nella pseudocultura di sinistra: e cioè che, siccome il carcere è diseducativo perché trasforma i microcriminali in macrocriminali, sono molto più dissuasive le pene alternative. Si sbandierano statistiche sui tassi di recidiva di nessun valore scientifico, per dimostrare che chi sconta la pena in carcere torna a delinquere più spesso di chi sta a casa o ai servizi sociali: come se si potesse prevedere come si comporterebbero tutti i delinquenti liberi se fossero stati incarcerati; e come se le statistiche registrassero gli autori di tutti i reati, che invece restano per l’80-90% senza colpevoli. Per combattere la recidiva e la diseducatività delle carceri, basterebbe costruirne di nuove per separare i piccoli dai grandi, garantire ai detenuti una vita decorosa di studio e lavoro. Non lasciarli o metterli fuori perché dentro è peggio.
Oltre all’impunità per i condannati fino a 4 anni, la “riforma” estende poi questa incredibile franchigia a terroristi e ai mafiosi, finora esclusi: basterà attendere che abbiano scontato la parte di pena per i reati di terrorismo e di mafia, e poi dal restante “cumulo” per i reati comuni (acquisto di armi, occultamento di cadaveri ecc.) potranno detrarre i fatidici 4 anni e uscire prima. Come i detenuti comuni. Non solo: i mafiosi con figli fino a 10 anni potranno uscire negli ultimi 4 anni di pena, anche se relativa a reati di mafia. E le Procure antimafia non potranno più trasmettere ai Tribunali di Sorveglianza le notizie sui legami dei detenuti aspiranti ai benefici con i clan, privando di notizie fondamentali sulla loro perdurante pericolosità i giudici che devono decidere se metterli fuori o meno. A questo punto non si vede perché buttare miliardi per indagare, arrestare e processare 3 milioni di persone all’anno, se già si sa che 9 su 10 verranno condannati a meno di 4 anni e non faranno un giorno di galera, ma resteranno a piede libero. Tanto vale, una volta presi, rilasciargli un foglietto con scritto: “Vai e casa e non farlo più”. Resta, è vero, un piccolo dettaglio: le vittime. Ma di quelle i politici si ricordano solo quando una brigatista in menopausa va in tv a delirare su via Fani. Perché la vittima, per i politici, è solo quella dei rarissimi reati che subiscono loro. Invece quelle dei delitti che commettono loro non sono vittime: sono pecore da tosare per cinque anni e poi da insultare (“giustizialisti!”, “populisti!”, “forcaioli!”) quando non li votano più.