Visto che, come Nanni Moretti, siamo convinti che le parole siano importanti, oggi ci sentiamo di suggerire al Movimento 5 Stelle di cambiare nome al reddito di cittadinanza. Chiamarlo in una maniera diversa, utilizzando i termini esatti forniti dalla lingua italiana per definire un provvedimento del genere – e cioè sussidio di disoccupazione – può essere utile per rimettere al centro del dibattito politico ed economico i fatti a scapito della propaganda.
In estrema sintesi, il contratto di governo tra 5Stelle e Lega (nome in questo caso azzeccato) prevede che, dopo aver riformato i centri per l’impiego, lo Stato versi un mensile a chi dimostra di star cercando attivamente un lavoro. Come è noto l’idea, mutuata da quanto accade in quasi tutti i Paesi d’Europa, chiede in cambio al disoccupato la partecipazione a corsi di riqualificazione professionale, la disponibilità a lavorare in favore della collettività per otto ore alla settimana e lo obbliga ad accettare almeno una delle tre proposte d’assunzione che i centri gli sottoporranno. Al terzo rifiuto il sussidio non viene più erogato.
Discutere se nei bilanci dello Stato sia possibile trovare i soldi per garantire a tutti i disoccupati un beneficio del genere è certamente legittimo e anche utile. Diciassette miliardi di euro l’anno, e forse più, non sono una bazzecola. Altrettanto giusto è poi sottolineare che in un Paese come il nostro, dove il lavoro nero è diffusissimo, il rischio truffe è molto alto. E non è nemmeno sbagliato ragionare sull’importo mensile previsto dal contratto: 780 euro al mese sono probabilmente il minimo indispensabile per chi vive in grandi metropoli del nord come Milano o Torino. Ma potrebbero essere troppi per chi invece risiede in piccoli centri abitati delle regioni del Sud. Solo che questo tipo di dibattito, basato sulle cifre, sulle cose da fare e su quelle che si possono realisticamente fare, è in gran parte oscurato dal nome infelice dato alla futura riforma.
Le parole “reddito di cittadinanza” evocano l’idea che lo Stato debba versare soldi a chiunque sia nato qui, indipendentemente dalla sua voglia di lavorare e di rimettersi in gioco. Così Forza Italia e una parte del Pd possono agevolmente evitare di entrare nel merito della proposta per rifugiarsi invece in un mantra lanciato da Matteo Renzi nel maggio di quest’anno: “Sono curioso di capire come Matteo Salvini giustificherà all’operoso Veneto l’accordo con il Movimento 5 Stelle per andare a pagare il reddito di cittadinanza a quelli che stanno fermi sul divano”. La battuta, anche se irrispettosa nei confronti degli oltre cinque milioni di poveri presenti in Italia (tra di loro ci sarà certamente qualche fannullone, ma pensare che lo siano tutti non sembra propriamente di sinistra), è politicamente efficace. Se invece le cose venissero chiamate col loro esatto nome crediamo che pure in Veneto nessun elettore, di qualunque colore politico esso sia, avrebbe nulla da ridire contro un sussidio versato a quel 6,3 per cento di corregionali attivamente alla ricerca di lavoro.
In Veneto il tasso di disoccupazione è il più basso d’Italia ed è ai livelli della Germania, ma proprio in Germania il sussidio esiste e funziona. Per questo pensiamo che anche in Veneto, se si usano le parole giuste, alla fine i cittadini chiederebbero una sola cosa a Luca Zaia, il loro governatore leghista: centri per l’impiego realmente efficienti, corsi di qualificazione professione di livello e un sistema in grado di far trovare alle imprese la manodopera che in regione spesso manca.