Venerdì 9, i medici diagnosticano alla 68enne Hillary Clinton una polmonite. Lei sa che se svela il suo precario stato di salute rischia di compromettere la campagna elettorale e perdere la corsa alla Casa Bianca. Così tace. Commette cioè il peccato di omissione. Che infatti, in politica, è quasi come quello della menzogna. Ma si sa, le bugie hanno le gambe corte. Così, succede che domenica 11, durante la commemorazione a Ground Zero per il 15° anniversario degli attacchi di al-Qaeda, Hillary abbia un malore improvviso.
Le tv documentano i suoi svenimenti. La prima volta è sostenuta da un paio di agenti del servizio di sicurezza. Si riprende un istante, poi perde di nuovo i sensi. La trasportano al van, nel trambusto perde una scarpa, la issano a bordo e il furgone nero schizza via, verso Madison Square, dove ha casa la figlia Chelsea. Per quasi due ore lo staff della Clinton non rilascia commenti. Poi, anche perché in Rete il video degli svenimenti girava a tutta birra, ha dovuto ammettere il problema. E rivelare la verità domenica sera.
Il caso Clinton (con tutti i precedenti di Hillary e del marito Bill) diventa materia di rovente dibattito. In America la menzogna dei politici è cosa assai grave. Bill Clinton, per avere mentito su Monica Lewinski (“Non ho mai avuto una relazione sessuale con quella donna”, dichiarò spudoratamente alla nazione negando la sua storiella con la stagista della Casa Bianca), rischiò l’impeachment: l’11 febbraio del 1999 si salvò per il rotto della cuffia, grazie a 2 voti, ma lo scandalo Lewinski continua a perseguitarlo.
George Bush mentì, con la complicità del premier britannico Tony Blair, sulla questione delle armi di distruzione di massa che Saddam teneva nascoste nei suoi arsenali, pronte per essere usate, giustificando l’attacco all’Iraq. Andando più indietro nel tempo, abbiamo la gran madre di tutte le menzogne made in White House, ossia quella del Watergate che costò a Richard Nixon la poltrona di presidente: successe il 9 agosto del 1974.
La sincerità (che vuol dire coraggio dell’etica) non è più una virtù dei politici – in Italia raccontare frottole è la norma, ahinoi. Nemmeno in quell’America finta puritana che non perdona i Pinocchi. Hillary Clinton, in questo esercizio, ha dimostrato indubbio talento. Per esempio, durante un’audizione nel 2008, vantò un episodio che le dava una certa patina d’eroismo: “Ricordo di essere atterrata sotto il fuoco dei cecchini”, disse, riferendosi ad un viaggio in Bosnia nel 1996, durante la guerra. Una balla che lei stessa ha corretto qualche anno dopo. A maggio è circolato su YouTube un video postato da Michael Armstrong, “la Clinton mente per 13 minuti”, a mixando dichiarazioni varie della candidata. L’hanno visto in 7 milioni.
È una campagna presidenziale volgare e cattiva. Sintetizzata dall’ultimo Economist: “Art of the lie”, titolo di copertina. L’arte della menzogna. In nome della “politica post-verità”. Termine che “inquadra il nuovo scenario: la verità non è falsificata o contestata, ma d’importanza secondaria”.