Guillermo Figueroa Santos, nome da guerrigliero Raul, è la persona più buona che conosca. Tredici anni fa, quando ero un ragazzo con la voglia di conoscere il mondo, Raul mi accolse a casa sua a Nuevo Horizonte, una comunità formata da ex-guerriglieri che dopo la firma degli accordi di pace con l’esercito guatemalteco, decisero di vivere insieme coltivando la terra e la voglia di portare avanti la rivoluzione non più con le armi ma attraverso il lavoro collettivo. Arrivai in Guatemala dopo aver vinto un bando della Caritas. Non parlavo una parola di spagnolo e sapevo poco di questo piccolo Paese martoriato dalle ingiustizie e dalla miseria. Lasciai l’Italia pieno di entusiasmo e con una certa dose di superbia tipicamente occidentale della quale credo di non essere più affetto. Pensavo di poter insegnare qualcosa a quella gente, ma giorno dopo giorno, mi accorsi che erano loro a insegnare molto a me. Come parlamentare ho commesso errori, tuttavia sono riuscito a non commettere quello più grave: lasciarmi soggiogare dal Palazzo e dal distacco dalla realtà che porta con sé. A me il potere non ha mai suscitato grande fascino. Non che ne abbia avuto così tanto, tuttavia, quando è arrivata la possibilità di ricoprire ruoli rilevanti, è come se avessi sentito dentro di me la voglia di fuggirne e di ricacciarmi nella più tangibile realtà. Qualcuno l’ha considerata una ritirata, io un investimento sulla mia libertà, sulla mia felicità e, perché no, sulla qualità di una mia possibile carriera politica futura.
Io devo tanto a Nuevo Horizonte, devo moltissimo alla famiglia Figueroa con la quale ho condiviso per mesi e mesi una condizione di vita non proprio agiata, devo moltissimo a Raul perché è stato soprattutto lui, insieme a mio padre e a Gianroberto, a farmi nascere la passione per la politica con la P maiuscola, quella che si può fare anche al di fuori di un ministero. Se non ho faticato troppo a lasciare il Palazzo è per via della vita che ho fatto prima di entrarvi, la stessa vita che sto vivendo adesso. Ed è per riconoscenza che ho voluto portare Raul nella giungla dove si è nascosto per molti anni, dove la guerriglia aveva posto la retroguardia strategica, dove nacque la prima CP-R (Comunità Popolare in Resistenza) e dove la Chala, la sua compagna, anch’essa guerrigliera, diede alla luce Raulin, il loro primo figlio.
Siamo partiti all’alba da Nuevo Horizonte prendendo la strada per La Libertad, una delle cittadine più pericolose del Guatemala. È terra di conquista del narcotraffico, del latifondo, delle imprese petrolifere straniere e di gruppi di sicari collegati all’agro-business. Il conflitto armato guatemalteco è finito, eppure, in certe zone del Paese, i morti si contano come negli anni della guerra, forse ancor di più. Qualche anno fa, proprio a La Libertad, un commando legato al cartello messicano degli Zetas, uccise e decapitò 27 contadini per lanciare un messaggio al proprietario della terra dove lavoravano, anch’egli, presumibilmente, un trafficante di droga che voleva alzare troppo la testa. Negli anni della guerra civile, i paramilitari al servizio dell’esercito guatemalteco per mandare messaggi alla guerriglia entravano nei villaggi indigeni e distruggevano tutto ciò che incontravano. I paramilitari non sono scomparsi, solo che oggi li pagano i narcos o alcune imprese private che hanno bisogno della testa di qualche leader indigeno per continuare a gestire terre e potere.
Da La Libertad abbiamo preso la carrettera a Bethel, una lunga strada sterrata che costeggia il Rio Usumacinta che in questo tratto segna il confine tra Messico e Guatemala. Qui le persone aspettano da sempre che venga asfaltata la strada, ma i lavori non partono mai. Se poi gli acquazzoni, copiosi durante la stagione delle piogge, aprono buche che sembrano crateri, ci pensano i narcos a mandare qualche camion di ghiaia. “Meno male che ci sono loro” è una frase che, se entri in confidenza con gli abitanti di questo pezzo di mondo, ascolti spesso. Dalla carrettera a Bethel partono un mucchio di stradine che raggiungono i villaggi più lontani. Su quella che va a Bonanza e poi ad Arbolito il ponte su un ruscello l’hanno fatto costruire proprio i narcotrafficanti. I narcotrafficanti sanno farsi voler bene dalle comunità rurali, regalano riso e fagioli, finanziano le feste patronali con qualche vitello, e consegnano farmaci indispensabili. Con quel che vendono uccidono, con quel che ricavano, a volte, provano a lavarsi la coscienza. I loro sicari sistemano chi si ribella, i loro denari sistemano le strade così da irrobustire il loro potere.
A Bethel c’è il posto di frontiera ma ci si fermano solamente gli occidentali per farsi timbrare i passaporti prima di proseguire per il Chiapas. Di certo non vi si fermano le centinaia di salvadoregni, honduregni o guatemaltechi che entrano in Messico da illegali attraversando il fiume. Di fatto non c’è alcun controllo, a parte quello dei coyotes, i trafficanti di uomini che organizzano gli esodi verso il Texas o la California come fossero un’agenzia di viaggio.
Bethel non è l’ultimo villaggio guatemalteco prima della frontiera, qualche chilometro dopo c’è La Felicidad, una delle comunità più povere che abbia mai visto. Alla Felicidad i bimbi sono felici anche se non esistono le fogne, anche se metà del loro campo da calcio è venuto giù per una piena del fiume, anche se l’unico edificio in muratura è la chiesa evangelica. Almeno la terra qui è ricca, il mais cresce rigoglioso e le piante di banane sono robuste. Il cibo non manca, manca tutto il resto. Mancano i dottori, manca una corretta alimentazione, mancano le medicine. I farmaci quando arrivano sono carissimi, l’omeprazolo è come l’oro, le pillole le vendono sfuse perché chi ha lo stomaco bucato se ne può permettere solo un paio. I migranti passano per La Felicidad e non vedono l’ora di lasciare il Guatemala perché pensano che al di là dell’Usumacinta non potrà mai esserci una povertà così immorale. I coyotes non li perdono mai di vista, sono le loro galline dalle uova d’oro d’altronde. Per loro l’importante non è che raggiungano gli Stati Uniti, ma che non tornino indietro dimostrando di non avercela fatta. Se i migranti arrivano tardi alla Tecnica, l’ultimo villaggio guatemalteco prima del fiume, si fermano la notte lì. I coyotes li piazzano nei piccoli hotel del paesino, li portano a mangiare nei ristorantini che servono pollo fritto e li rassicurano sul fatto che l’indomani prenderanno una barca e arriveranno in Messico.
Gli Stati Uniti vendevano armi a tutti
A La Tecnica abbiamo preso una lancia direzione Piedras Negras, uno dei siti archeologici più affascinanti del Guatemala. È immerso nella selva, la giungla ha ormai preso possesso delle piramidi maya. L’ultima volta che Raul visitò il sito era il 1990, ci passò per raggiungere la CP-R dove viveva sua madre. Le CP-R erano accampamenti dove andarono a vivere molti guatemaltechi minacciati dall’esercito. Vennero riconosciuti dal governo del Paese e non vennero mai attaccati grazie alla presenza di osservatori internazionali e della Chiesa cattolica.
Per arrivare a Piedras Negras occorrono quattro ore di navigazione. Le scimmie urlatrici nelle ore calde del giorno vanno a bere sulla riva ma devono stare attente ai coccodrilli. Ne avremmo incontrati a decine lungo il tragitto, io li fotografavo, Raul mi diceva che durante gli anni della guerra li cacciavano per poterli mangiare. “La carne di coccodrillo è bianca, sembra pollo ma con l’odore del pesce”. Raul mi indicò il punto esatto in cui, dal Messico, un’unità di guerriglieri faceva entrare provviste, uniformi, munizioni e armi. Le armi arrivavano anche dagli Stati Uniti. I fucili d’assalto M-16 partivano dalle stesse fabbriche prima di prendere strade differenti: alcuni carichi arrivavano a Puerto Barrios, un porto sul mar Caraibico da dove, grazie alla ferrovia di proprietà della United Fruit Company, l’attuale Chiquita, raggiungevano Città del Guatemala; altri, attraverso la Selva Lacandona, entravano illegalmente in Guatemala.
A 14 anni nella guerriglia grazie alla Capitana Maria
Raul entrò nella guerriglia a 14 anni grazie alla Capitana Maria, una guerrigliera guatemalteca figlia di un latifondista del caffè che non accettò mai di vedere il suo Paese sprofondare nella miseria. A 16 anni Raul riuscì a raggiungere Cuba dopo un lungo viaggio che lo vide passare prima a Città del Messico e poi a Managua dove aveva appena trionfato la rivoluzione sandinista. A Cuba ricevette un addestramento in difesa personale e in tecniche di comunicazione. “A L’Habana si mangiava tanta carne, non avevo mai mangiato così tanta carne in vita mia, però non c’erano le tortillas di mais e non era facile per noi guatemaltechi”. Tutti i fratelli e le sorelle di Raul hanno fatto parte della guerriglia, il più piccolo è morto a La Libertad durante uno degli ultimi combattimenti prima della firma della pace. Raulin, suo figlio, è nato nella giungla e Raul, che in quel tempo si trovava sul fronte a Sayaxche lo vide per la prima volta dopo due mesi dalla nascita. Raulin è venuto con noi a Piedras Negras e ogniqualvolta suo padre raccontava le storie della guerriglia lo osservava come si osserva un eroe. Da Piedras Negras abbiamo preso un sentiero che porta al Porvenir, l’accampamento dove abbiamo passato la notte. Abbiamo fatto una piccola deviazione, siamo entrati nella giungla più fitta. Raul voleva mostrarmi quanto fosse difficile vivere là dentro tra liane che sembrano serpenti e milioni di zanzare, gli animali più pericolosi della selva. Raul per me è un esempio, non perché ha preso in mano un fucile, ma perché ha lottato tutta la vita affinché la povertà immotivata in un Paese bagnato da due oceani, ricco di oro, petrolio e dalla terra fertile, venisse sconfitta. E ha lottato in prima persona per eliminare quelle ingiustizie che ancora attanagliano il suo Paese. Il Guatemala è la perla del Centro America, centinaia di migliaia di turisti vi arrivano ogni anno. Visitano Tikal, fanno incetta di artigianato locale al mercato di Chichicastenango, scalano i vulcani e ammirano la bellezza coloniale di Antigua. Raramente si rendono conto del livello di miseria del Paese. Si indignano quando vedono bambini costretti a lavorare per la strada, provano disgusto per chi si fa lustrare le scarpe da chi dovrebbe giocare all’asilo, ma non si rendono conto che i loro genitori non sono sfruttatori, ma uomini e donne disperati che non sanno come riempire gli stomaci dei figli. In Guatemala la metà dei bambini sotto i 5 anni soffre di ritardi causati dalla denutrizione.
Se dal Petén, la regione più settentrionale del Paese, si prende la strada per Cobán, la città più importante della regione dell’Alta Verapaz, si costeggia, oltre l’oleodotto costruito dalla Perenco, una multinazionale petrolifera che opera in mezzo mondo, centinaia di minuscoli campi di mais. Gli indigeni coltivano dove possono, anche sul ciglio della strada, dove si rischia di essere investiti dalle auto durante il raccolto. La popolazione indigena vive tutt’oggi ai margini della società. Eppure sono loro i legittimi padroni di quelle terre. Dovrebbero essere loro e soltanto loro i protagonisti del loro futuro, così come gli afghani, per parlare di una guerra a noi più vicina.
Raul è la persona più buona che abbia mai conosciuto. Dopo la firma degli accordi di pace ha pensato di continuare la rivoluzione a modo suo. Lo fa lavorando e mettendo da parte il denaro sufficiente per far studiare i suoi figli; lo fa tenendosi lontano dall’alcool, la principale piaga che colpisce il Centro America; lo fa, lui che non ha avuto la fortuna di studiare, provando a scrivere un libro sul conflitto armato guatemalteco. A me la guerra fa schifo, ma ancor più schifo mi fanno coloro che, nel corso dei secoli, hanno costretto la povera gente a combattere. In Europa ci sentiamo fortunati, pensiamo di vivere in pace. Ascoltiamo conduttori Tv tessere le lodi dell’Unione europea in virtù della pace che ha prodotto. Ma dove? E che tipo di pace? Non erano bombe quelle sganciate su Belgrado, a poche centinaia di chilometri dal Mar Adriatico, con la compiacenza di un governo di sinistra? Non sono guerre quelle dannatissime missioni militari mascherate da operazioni di peace-keeping tanto per aggirare, come sostiene Massimo Fini, l’articolo 11 della Costituzione italiana? Non è guerra quella che si è combattuta in Libia per soddisfare la sete francese di petrolio? Non provoca morte e disperazione quel capitalismo finanziario e quel libero mercato che libero non è e che produce ogni giorno un accentramento di ricchezze in poche mani che non si era visto neppure nelle più inique monarchie? E non sono collaborazionisti quei sicari della libera informazione che si scandalizzano più per lo spread che per la povertà dilagante?
Il Paese con il miglior caffè del mondo beve solo Nestlé
Chi legge questo reportage penserà che io abbia preso posizioni di sinistra. Io non credo più che destra e sinistra siano categorie capaci di interpretare le pulsioni politiche, sociali ed esistenziali degli esseri umani e trovo avvilente che il dibattito politico in Italia sia ritornato a battere su questo punto. La battaglia del secolo sarà tra chi si vuole riprendere quote di sovranità e chi invece continua a volerle cedere a organizzazioni sovranazionali che stanno distruggendo i diritti economici e sociali delle popolazioni.
A Cobán le terre migliori sono in mano a famiglie tedesche, molte delle quali fuggite dalla Germania dopo la Seconda guerra mondiale. Vi coltivano il caffè migliore del mondo eppure in Guatemala gli indigeni, quando se lo possono permettere, bevono solo disgustose brodaglie che si ottengono mischiando polveri della Nestlé con acqua spesso contaminata. Stare dalla parte delle popolazioni indigene significa essere di sinistra? Per me si tratta solo di logica. Era logico per Raul prendere la strada della selva come è logico adesso, per lui, far di tutto affinché i figli possano andare all’università. L’università ufficiale, non quella del crimine presente nei quartieri caldi o nelle carceri del Paese. Perché in Guatemala si è firmata la pace nel 1996, ma la guerra esiste ancora. La combattono i narcos tra di loro; la combattono i latifondisti corrompendo la classe politica per ottenere il permesso di disboscare uno degli ultimi polmoni del continente per potervi piantare caffè, canna da zucchero o palma africana; la combattono le pandillas, le bande delle periferie delle città, per accaparrarsi i ragazzini più disperati e trasformarli in sicari senza paura. In mezzo al fuoco incrociato vivono i più poveri del Centro America, gli indigeni, i quali oggi hanno finalmente diritto a parlare la loro lingua ma non a coltivare la loro terra.
•1 – Stati Uniti, i droni al posto dei rider
•2 – Tijuana, il mondo perduto nascosto dal muro
•3 – Il voto populista per non farsi ammazzare
•4 – La tragedia dei trattati di libero commercio