L’aquila nera è quella che svetta sulla bandiera dell’Albania. Due calciatori della Svizzera – Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri – l’hanno mimata con le mani venerdì, dopo i due gol contro la Serbia, accendendo all’improvviso le polemiche nazionali in un Mondiale dove finora erano rimaste in secondo piano.
Entrambiprovengono da famiglie di origini albanesi del Kosovo. E gli scarpini di Shaqiri da sempre sono marchiati da due bandiere: su uno c’è quella della Svizzera, sull’altro quella del Kosovo, oggi uno Stato indipendente non riconosciuto dalla Serbia. “Hanno esultato come persone che credono nell’idea della cosiddetta ‘Grande Albania’ – ha scritto online, dopo la partita, il quotidiano serbo Blic –. Così hanno provocato vergognosamente i nostri tifosi”.
La posta in palio, l’accesso agli ottavi dei Mondiali, in questo caso c’entra molto poco. Sul campo di Kaliningrad si è visto il riflesso di sentimenti mai del tutto sopiti, legati alla storia e alla geopolitica: insomma a quella grande polveriera che sono ancora i Balcani, dove si cerca di mantenere un equilibrio su uno stallo sempre precario. L’aspetto calcistico sta semmai nei possibili provvedimenti disciplinari ai due calciatori, deciderà la Fifa. “Non si dovrebbe mescolare la politica con il calcio – ha detto Vladimir Petkovic, commissario tecnico della Svizzera di origini bosniache. Ma il suo collega della Serbia, Mladen Krstajic, ha invece ridato fiato alle polemiche.
Lo ha fatto parlando del Var non consultato dall’arbitro dopo un fallo, in area di rigore, sull’attaccante serbo Aleksandar Mitrovic: “Purtroppo solo i serbi, a quanto pare, vengono condannati sulla base di una giustizia selettiva – ha detto –. Prima il maledetto tribunale internazionale penale dell’Aia, oggi nel calcio il Var.”
Il riferimento è alla Corte penale internazionale che ha chiuso i battenti lo scorso ottobre, dopo 24 anni di attività. Il suo scopo era di punire i crimini di guerra, quelli contro l’umanità e i genocidi. Ma i serbi hanno spesso accusato il tribunale di essere un organo politico, reo appunto di una “giustizia selettiva”. Più severa nei confronti dei serbi, meno contro croati e bosniaci. E così sul terreno di gioco si vedono gli effetti di una guerra infinita, sedata da una pace tutt’altro che stabile. Il padre di Xhaka rimase per tre anni in prigione, prima di riuscire a fuggire, nei primi anni Novanta, proprio in Svizzera.
La ferita sempre aperta riporta alla memoria le violenze della guerra, quando il Kosovo era una regione della Serbia, abitata per la grande maggioranza da albanesi. Di mezzo ci sono stati gli scontri etnici, gli attentati terroristici dei separatisti filo-albanesi, la repressione dell’ex presidente serbo Slobodan Milosevic e l’intervento della Nato. Dal 2008 il Kosovo è uno Stato autonomo, riconosciuto da 115 Stati su 193 dell’Onu. Ma non dalla Serbia, che nei Balcani mantiene ancora vive le sue pretese su quella regione. Con l’Unione europea che cerca con difficoltà di sedare le tensioni.
Mentre scorrono le immagini del Mondiale, c’è chi pensa che la Jugoslavia, unita in un’unica nazionale, oggi potrebbe essere fra le candidate alla vittoria finale. Ma è solo una suggestione, al limite del fantacalcio. La storia e la politica sono un’altra cosa. I tifosi russi, tradizionalmente filo-serbi, venerdì hanno fischiato ogni volta che Xhaka e Shaqiri hanno preso la palla. Poi però hanno segnato proprio loro due. E per esultare il loro gesto più naturale è stato quello di un’aquila che vola.