Lo studioso della Rivoluzione francese Georges Lefebvre ha insegnato agli storici una particolare sensibilità nei riguardi dell’origine delle notizie che sgorgano da una sorgente che all’improvviso si cristallizza in una versione dei fatti simile a una lama di ghiaccio in cui verità e menzogna, segreti e bugie, colombe e serpenti si confondono insieme.
A questo proposito la seduta spiritica del 2 aprile 1978 rappresenta un caso di studio esemplare. Il suo momento genetico è quando la notizia divenne di dominio pubblico, ossia il 17 ottobre 1978 grazie a un articolo del Corriere della Sera di Roberto Martinelli e Antonio Padellaro intitolato “Dov’è il leader Dc?”, chiesero allo spirito di La Pira. E la risposta arrivò col posacenere: “Gradoli… 095”. Secondo quest’originaria versione la seduta spiritica si svolse “a Bologna in un appartamento del centro storico” e l’anonimo “professore assai vicino ad ambienti democristiani” sarebbe rimasto in disparte nella stanza accanto a quella “degli improvvisati spiritisti”, mentre “i bambini si rincorrevano per casa sotto gli occhi vigili della nonna”. L’articolo si concludeva così: “E il professore? La mattina del 18 aprile quando la radio annunciò la notizia del covo di via Gradoli, il protagonista di questa storia era al volante della sua auto. ‘Gradoli. Quel nome non era nuovo per me – ricorda oggi –. Istintivamente misi il piede sul freno e cominciai a meditare. Ancora adesso non riesco a spiegarmi come tutto ciò sia potuto accadere’”.
Il 25 novembre 1978, un mese dopo l’uscita dell’articolo, Romano Prodi divenne ministro dell’Industria nel governo Andreotti. Il 14 dicembre 1978 la proprietaria del covo brigatista di via Gradoli, Luciana Bozzi, che conosceva Franco Piperno dai tempi in cui frequentavano insieme il Centro di ricerche nucleari di Frascati, iniziò a lavorare con un contratto di due anni proprio al ministero dell’Industria. Il 22 dicembre 1978, nelle vesti ormai di ministro di quello stesso dicastero, Prodi fu ascoltato dalla magistratura insieme con il suo collaboratore Alberto Clò. Dopo quell’interrogatorio il nome di Prodi uscì dal prudente anonimato garantitogli dal Corriere della Sera, ma davanti all’autorità giudiziaria la versione iniziale della seduta spiritica subì due rilevanti modifiche: dalla casa nel centro storico di Bologna l’ambientazione si spostò nella campagna felsinea e la “vigile nonna” scomparve per sempre dalla scena (o, se si preferisce, dalla sceneggiatura).
A quanto è dato sapere, l’autorità giudiziaria non indagò sull’eventuale esistenza di un rapporto di conoscenza o di fiducia tra il neo ministro dell’Industria e la proprietaria del covo di via Gradoli, come la chiamata diretta della Bozzi al dicastero tre settimane dopo la nomina di Prodi avrebbe potuto autorizzare a pensare, ma si limitò a raccogliere le sue dichiarazioni. In base alla nuova versione dei fatti, la seduta spiritica si era svolta in un casolare di campagna nei pressi di Zappolino con il metodo del “cosiddetto piattino”. Secondo Clò, nel corso della seduta, fra le tante “domande generiche”, i partecipanti chiesero agli spiriti di don Luigi Sturzo e di Giorgio La Pira di indicare loro il posto ove Moro poteva essere rinchiuso. Egli escluse “che qualcuno dei partecipanti abbia potuto ‘gestire’ e strumentalizzare ‘il piattino’ che per noi tutti si presentava come un passatempo condotto con questo spirito” e, tra le diverse risposte, emerse in modo univoco quella di Gradoli in provincia di Viterbo.
Prodi confermòil dato, si chiese “se c’era qualcuno che faceva il furbo” e l’indomani informò dell’episodio il criminologo Augusto Balloni, chiedendogli di contattare la Digos di Bologna, ove questi aveva delle conoscenze in ragione della sua attività professionale. Sempre Prodi, il 4 aprile, essendo di passaggio a Roma, comunicò con scetticismo l’informazione a Umberto Cavina, addetto stampa del segretario della Dc Benigno Zaccagnini. In base a una “lettera collettiva” consegnata da Prodi il 3 febbraio 1981 al presidente della Commissione Moro e sottoscritta da tutti i partecipanti alla seduta spiritica che in questo modo si vincolavano a un’unica versione dei fatti, vi presero parte Mario e Gabriella Baldassarri, Franco e Gabriella Bernardi, Adriana, Alberto, Carlo e Licia Clò, Emilia Fanciulli, Fabio Gobbo, Flavia e Romano Prodi. In buona parte si trattava di un gruppo di professori universitari destinati in futuro a ricoprire importanti incarichi pubblici se consideriamo che Prodi è stato per due volte presidente del Consiglio e presidente della Commissione europea, Clò ministro dell’Industria nel 1995, Baldassarri viceministro dell’Economia nel 2001 e Gobbo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel secondo governo Prodi. Dalle successive deposizioni davanti alla Commissione Moro e Stragi si è chiarito che il gioco era stato suggerito dal padrone di casa Alberto Clò, che invece davanti al magistrato nel 1978 non aveva ammesso la circostanza; che 4-5 persone erano state più attive di altre nel porre le domande e nello sfiorare materialmente con il loro dito il piattino, fra cui gli stessi Clò e Prodi. Un dato questo puntualizzato nel 1998 da Clò e da Baldassarri, ma non da Prodi nel 1981, il quale, più prudentemente, aveva sottolineato come “un po’ tutti” contribuissero alle letture delle risposte date dal piattino. Tra le varie deposizioni vi sono differenze all’apparenza di scarso rilievo: ad esempio, Gobbo nel 1981 disse che era stato utilizzato un “posacenere”, proprio come riportato nell’articolo del Corriere della Sera, e non un piattino da caffè come ricordato da Clò. L’unica divergenza degna di nota riguarda un aspetto decisivo, ossia l’individuazione di chi prese la decisione di comunicare all’esterno i risultati della seduta, rendendo dunque esecutivo, effettuale e funzionale l’evento, altrimenti destinato a rimanere incastonato nei ricordi di un’“allegra brigata” degna di una pagina del Decameron di Boccaccio. Secondo la versione di Prodi del 1981, la volontà fu comune; per Clò nel 1998 non se ne discusse affatto e, anzi, rimase sorpreso quando seppe che l’amico ne aveva parlato al di fuori della compagnia; per Baldassarri c’erano pareri discordanti nel gruppo, ma si decise di non creare ancora più confusione.
Dall’analisi di queste testimonianze si deduce che Clò e Prodi ebbero un ruolo centrale nella vicenda: il primo nel proporre il gioco e il secondo nel decidere di divulgarne i risultati all’esterno, mentre gli altri si limitarono a prendere parte alla seduta nelle vesti di comparse. Anche sui nomi dei partecipanti c’è piena identità di vedute, con un’unica eccezione che è opportuno segnalare per l’autorevolezza della testimonianza e per la sede istituzionale in cui nel 2004 pronunciò le sue affermazioni, ossia la cosiddetta Commissione Mitrokhin: secondo l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga quel giorno era presente “da una parte […] che non partecipava” (si noti, come nella versione originaria accreditata nell’articolo del Corriere della Sera dove si parla genericamente di un “professore in disparte”) anche Beniamino Andreatta, maestro di vita e di studi di Prodi, divenuto anche lui ministro nel 1979 in un governo guidato proprio dal politico sardo. Stando alle numerose e convergenti deposizioni raccolte, la partecipazione di Andreatta alla seduta spiritica rimane priva di fondamento, ma il fatto che Cossiga abbia continuato a propalare questa versione sembra costituire un messaggio insinuante comprensibile nel suo pieno significato soltanto da alcuni selezionati protagonisti di quegli eventi. Come è noto, Andreatta aveva contribuito a fondare nel 1970 l’Università di Cosenza, di cui era stato rettore fino al 1974. Proprio in quella sede si era radicata una vasta area di sovversivismo intorno alla carismatica figura di Franco Piperno, docente di Fisica presso la stessa università. Negli stessi giorni di inizio aprile 1978, Piperno fu il tramite individuato dai socialisti per stabilire un contatto con i brigatisti, mentre sua moglie, il 6 aprile, venne arrestata con l’accusa di essere stata presente in via Fani, da cui fu scagionata soltanto il 20 giugno 1978. Come è facile intuire, la storia del piattino ha suscitato mordaci sarcasmi e calunniose strumentalizzazioni aumentate in maniera direttamente proporzionale all’ascesa politica di Prodi. Tuttavia, quell’artificio è più raffinato di quanto sembra tanto da essere utilizzato dalle principali polizie del mondo (in particolare dagli psico-detective angloamericani) per coprire i propri informatori quando sono a rischio della loro stessa vita. In effetti, una seduta spiritica occulta qualsiasi responsabilità individuale dietro un doppio inscalfibile schermo: il soggetto collettivo previsto dalla sua organizzazione e, nel caso di un interrogatorio, un’insondabile entità soprannaturale.
Il 5 aprile, Luigi Zanda, figlio del capo della polizia Efisio dal 1973 al 1975 e uno dei principali collaboratori del ministro Cossiga, venne contattato telefonicamente dal portavoce di Zaccagnini. Zanda trasferì al capo della polizia Giuseppe Parlato l’indicazione emersa dalla seduta spiritica con un biglietto autografo non datato, che venne saggiamente conservato dal destinatario. Anzi, Parlato ebbe l’accortezza di far annotare ai margini del testo una serie di indicazioni cronologiche via via che gli eventi si evolvevano ed emergeva, tra le polemiche, che la polizia si era già recata il 18 marzo 1978 in via Gradoli 96, perquisendo l’abitazione attigua al covo abitato da Mario Moretti. Come spesso accade, i margini di un documento sono più rivelatori del suo centro: così è possibile apprendere che il biglietto sarebbe stato ricevuto il 5 aprile, che l’indomani venne allertato il questore di Viterbo affinché procedesse alla perquisizione di Gradoli e che il “18 aprile alle 16:30” il “dott. Zanda” ne chiese una copia indietro, evidentemente colpito dal fatto che si parlasse del paesino viterbese, omonimo della via romana in cui poche ore prima era stato scoperto il covo delle Br.
La conservazione del documento da parte del capo della polizia e la sua progressiva datazione svolsero la preziosa funzione difensiva di attestare che il ministero dell’Interno e i vertici delle forze dell’ordine – in base al contenuto di quel biglietto – non avrebbero potuto che dirigersi “lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa isolata con cantina”, come recava il biglietto autografo di Zanda. Tuttavia, è un dato accertato che nelle stesse ore il ministero degli Interni, nella persona del sottosegretario Nicola Lettieri, continuava a tenere gli occhi puntati proprio su via Gradoli 96, dal momento che in un “appunto riservato” del 6 aprile si segnalava per ulteriori accertamenti l’amministratore di quel condominio che, in ragione del suo ufficio, era entrato in contatto con Mario Moretti, alias “Mario Borghi”. In conclusione la seduta spiritica servì anzitutto a occultare all’interno di un indeterminato soggetto collettivo la fonte informativa originaria – un brigatista dissidente oppure un esponente del “Partito armato” – che avrebbe indirizzato la polizia al paese di Gradoli piuttosto che all’omonima via di Roma. Per depistare – informando, ma al tempo stesso disinformando mescolando il vero al falso –, o perché a conoscenza di una verità soltanto parziale. Quest’azione sembra corrispondere a un’unica strategia politica: provocare il fallimento dell’operazione Moro costringendo Moretti a liberarlo, senza però fare arrestare il capo delle Br che era un avversario politico, con una diversa prospettiva rivoluzionaria, ma non un nemico da tradire. Il lungo e tenace riserbo che tuttora avvolge il nome della fonte segreta induce a ritenere che non sia stato un “pesce piccolo” dell’area dell’eversione, ma un esponente di prestigio, ieri a rischio di morte se le Br avessero scoperto il suo doppio gioco e oggi con un’onorabilità personale e politica ancora da difendere.
In secondo luogo, la seduta spiritica con il relativo bigliettino datato dai vertici della polizia costituì una sorta di pezza d’appoggio ben documentata per tutelare sia l’autorità politica, sia quella investigativa dal 18 aprile in poi, quando era ormai facile prevedere che sarebbe cominciato il tempo delle inchieste e dei processi. È come se un sottile ma robusto filo di intenzioni comuni abbia legato l’anonimo informatore segreto che rischiava la vita, i professori bolognesi che fecero da tramite e da strumento, forse Andreatta (il quale verosimilmente svolse il ruolo di “gancio” iniziale e di motore informativo) e certamente il ministro degli Interni Cossiga e il capo della polizia. Ciò avveniva nelle ore in cui decollavano l’“iniziativa socialista” (riservata), il negoziato segreto promosso dal papa e i brigatisti, con la gestione della lettera del 29 marzo indirizzata proprio a Cossiga avevano mostrato la disponibilità ad avviare una trattativa occulta con un canale di ritorno da fuori a dentro la prigione.
Davanti al silenzio o alla reticenza delle fonti e dei testimoni, lo studioso di storia si deve accontentare di individuare la funzione dei fatti e di spiegare il loro meccanismo, che nel caso della seduta spiritica sono sufficientemente chiari. In fondo, come ebbe a dire con comprensibile sarcasmo il presidente della giuria del processo Moro alla turbata e dignitosa Eleonora Moro che ancora si chiedeva come mai non si fosse ritornati anche in via Gradoli a Roma come da lei stesso suggerito: “Signora, si tratta soltanto di una seduta spiritica. Dopo tutto non è il Vangelo!”. Come se proprio l’apostolo Matteo nei suoi atti non avesse consigliato alle genti la virtù cristiana della dissimulazione: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”. In mezzo ai lupi, che famelici popolavano le strade italiane in quella maledetta primavera.
4 – continua