“Il primo ad avermi deportato è stato Obama. Poi anche Trump due mesi fa. Ora aspetto il momento giusto per saltare un’altra volta. Dall’altra parte ho il mio lavoro e la mia famiglia, non mi importa nulla del muro”.
È quel che mi ha detto un uomo in un hotel per migranti a Mexicali, la capitale dello Stato messicano della Bassa California. A Mexicali siamo arrivati con un micro-bus da Tijuana. La strada è abbastanza buona anche se c’è una parte che viene considerata la più pericolosa del Messico. È il tratto che attraversa la Sierra de Juarez, 20 km di tornanti costeggiati da enormi massi.
A Mexicali la temperatura è insopportabile. Fino agli anni 80, a poche miglia dal centro, iniziava la Laguna Salada, un enorme bacino di acqua salmastra alimentato da qualche rivo perduto del fiume Colorado o dalle alte maree provenienti dal Golfo di California. Oggi la laguna è completamente secca. I messicani accusano i nordamericani di utilizzare tutta l’acqua del Colorado per irrigare i campi di barbabietole dell’Imperial Valley, la valle che inizia al di là del muro, e per dare corrente alle insegne e alle slot-machine di Las Vegas. Questo è uno dei mille conflitti che segnano l’esistenza dei messicani e dei nordamericani che vivono la frontiera, una frontiera che pare marcare la diversità di due mondi. Da una parte sviluppo e opportunità, dall’altra miseria e siccità. Da una parte chi vorrebbe che la storia venisse quantomeno ricordata, dall’altra chi pensa che è del tutto inutile perché sono sempre i vincitori a scriverla. Non esiste tra i messicani alcun desiderio di vendetta. Il fatto che nel 1848, a seguito di una guerra di invasione da parte degli Stati Uniti, il Messico abbia perduto oltre il 55% del suo territorio, viene accettato come parte della storia. Non c’è messicano che richieda il ritorno ai confini del 1846, tuttavia sono molti i messicani che non capiscono il perché gli sia impedita addirittura la possibilità di metter piede su quelle terre che un tempo, non troppo lontano, gli appartenevano e con esse tutte le loro ricchezze: l’oro della California, le bellezze naturali dell’Arizona o il petrolio del Texas.
Tuttavia, se occorre ricercare nella storia le ragioni per le quali c’è chi ritiene diritto dei messicani cercar fortuna al di là del Rio Bravo, non è necessario guardare al XIX secolo, l’anno da studiare è il 1994. È l’anno dell’inizio del suicidio economico e sociale del Messico a seguito dell’entrata in vigore dell’Accordo nordamericano per il libero scambio.
Sostenuto principalmente dalle multinazionali dell’agro-business il trattato di libero commercio Usa-Canada-Messico venne firmato nel 1992 durante la presidenza di Bush padre ed entrò in vigore il 1 gennaio del 1994, giorno in cui, in Chiapas, nel sud del Messico, partì la rivolta dell’Ezln che si opponeva all’abbattimento delle barriere commerciali ritenendo il trattato il preludio dell’ennesimo trasferimento di ricchezza tra il secondo e il primo mondo.
Il 1994 è anche l’anno del progetto Gatekeeper, un’operazione voluta dal presidente democratico Bill Clinton e realizzata dalla Border Patrol, polizia di frontiera nordamericana. L’operazione che aveva l’obiettivo di fermare l’immigrazione clandestina prevedeva il rafforzamento di alcune barriere, telecamere lungo la frontiera e di centinaia di milioni di dollari per operazioni di controllo e per assumere nuovi agenti. La barriera, la cinta, il muro: chiamatelo come vi pare, ma sappiate che non si tratta di un’idea di Trump. Trump ha solo promesso di terminare un’opera iniziata da Bush padre, ampliata da Clinton marito e sostenuta, tra gli altri, da Clinton moglie e dal premio Nobel per la Pace Barack Obama. Questi ultimi, rispettivamente senatori democratici dello Stato di New York e dell’Illinois, votarono favorevolmente il Secure Fence Act, la legge voluta dai Repubblicani che autorizzava la costruzione di centinaia di miglia di barriere lungo il confine meridionale del Paese.
Nel 2009 Noam Chomsky, durante una lectio magistralis tenuta all’Università di Città del Messico sostenne che il tempismo dell’operazione Gatekeeper non fu casuale. L’Amministrazione Clinton sapeva che l’ondata di esportazioni agroalimentari made in Usa verso il Messico – autorizzata dal trattato di libero commercio – avrebbe danneggiato i piccoli produttori. Chi ritiene che il libero mercato sia la strada per la prosperità del mondo dovrebbe quantomeno lottare affinché questo sia libero davvero. A quale libertà potranno mai aspirare i milioni di contadini messicani asfissiati dall’irruzione sul loro mercato di prodotti agricoli sovvenzionati dal governo nordamericano e per questo dai prezzi bassissimi? Non si tratta anch’essa di un’invasione? Era chiaro a tutti che i produttori centro-americani non sarebbero stati in grado di resistere alla concorrenza dei colossi come Cargill e Monsanto. Ed era chiaro a tutti che l’impoverimento nelle aree rurali messicane, honduregne o guatemalteche avrebbe spinto centinaia di migliaia di persone ogni anno a cercare una forma di sostentamento altrove, a Hollywood, nella Silicon Valley, delle opportunità nelle imprese di costruzioni texane. Nel primo mondo, quello che si intravede tra le fessure del muro di ferro a Tijuana, a Mexicali, a Nogales; quello dove i cartelli transnazionali riciclano miliardi di dollari provenienti dal narcotraffico; quello dove amici e parenti vivono e hanno trovato lavoro; quello che un tempo era territorio messicano.
A Tijuana c’è una farmacia a ogni angolo di strada. Ogni giorno centinaia di cittadini statunitensi escono da San Diego ed entrano in Messico per comprare farmaci di ogni tipo, quelli indispensabili per la loro salute, ansiolitici, anti-depressivi e viagra. A Tijuana costano poco e vengono spesso venduti senza ricetta. Tra un bar e l’altro c’è un centro salute e ci trovi soprattutto americani. Vanno a farsi le analisi del sangue, a controllare lo stato del cancro o a mettersi una protesi dentaria. Un tempo Tijuana era tequila, sexo y marijuana. Oggi è il turismo medico il vero business di Tijuana.
A Nogales, Stato di Sonora, ho conosciuto John, un pensionato di Phoenix. Era arrivato in città perché gli si erano spezzati due denti. Nonostante avesse l’assicurazione sanitaria, in Arizona avrebbe dovuto pagare quattro volte quel che stava pagando dal dentista messicano. La cittadina più settentrionale di tutta l’America Latina, Los Algodones, è la capitale mondiale dell’odontoiatria. 5000 abitanti, oltre 300 cliniche dentali e 500 dentisti. Molti impiegati delle cliniche sono messicani espulsi dagli Stati Uniti negli ultimi anni. Trovano lavoro a Los Algodones perché parlano inglese e conoscono la mentalità dei loro clienti. Non hanno intenzione di tornare negli Usa, quel muro non impedisce alcun passaggio a quelli che gli portano i soldi.
Il muro pare non sia un problema neppure per le migliaia di persone che al confine sognano di scavalcarlo. “Yo puedo brincar, puedo brincar”, ripete quell’uomo nell’hotel per migranti di Mexicali. Brincar – che significa saltare – è anche il modo in cui viene chiamato il provino definitivo per entrare in una pandilla, una banda criminale centro-americana. Le pandillas o maras hanno molto a che fare con i fenomeni migratori. Ne furono un prodotto e adesso ne sono una delle cause. Negli anni 80 le guerre sporche combattute in Guatemala, Salvador e Nicaragua, guerre finanziate dalla Cia e da parte dell’Amministrazione Reagan, produssero un primo esodo di centro-americani verso la California. Al posto della terra promessa trovarono degrado ed esclusione sociale.
Fu in quegli anni che vennero fondate a Los Angeles due bande che dettano legge in Centro-America: la Mara Salvatrucha e la Mara 18. Presto si unirono alle bande anche guerriglieri e disertori salvadoregni o honduregni senza più voglia di combattere in patria. Le bande crebbero grazie all’estorsione e al traffico di armi e droga. La polizia americana gli dichiarò guerra, vennero arrestati migliaia di pandilleros, ma le bande furono capaci di resistere fino a che, nel 1996, sotto la spinta di una opinione pubblica esasperata dalla violenza delle gang, in California venne approvato l’Illegal Immigration Reform and Immigrant Responsibility Act, una legge durissima voluta dall’Amministrazione Clinton che permise l’espulsione di migliaia di irregolari centroamericani. Molti vennero prelevati dalle carceri e spediti in aereo a San Salvador, Tegucigalpa o Città del Guatemala. Migliaia di delinquenti che si erano fatti le ossa tra le strade di Los Angeles o nelle carceri californiane riuscirono così, in breve tempo, prendere il potere in Centro-America.
A Tijuana sotto un capannone ho conosciuto una famiglia salvadoregna. Padre, madre e quattro figli. La piccola, di pochi mesi, aveva la febbre. Il papà mi ha raccontato storie di morte, sconsigliandomi di passare per il Salvador. Le pandillas hanno corrotto giudici, politici, poliziotti, le pandillas seminano il terrore uccidendo chi non paga il pizzo o reclutando giovanissimi nelle aree rurali centro-americane. Cos’è una guerra? È una lotta armata tra due eserciti con l’obiettivo di risolvere con la violenza una controversia. In moltissime aree centro-americane si sta combattendo una guerra a tutti gli effetti. Si spara per strada, si reclutano ragazzi contro la loro volontà, si uccide chi non collabora e si semina morte tra i civili.
Quel padre cercava una via di fuga, per lui ma soprattutto per i suoi figli perché non li avrebbe mai voluti vedere arruolati tra le file della 18 o della Salvatrucha. Potete dargli torto? Non dico che per questa ragione occorre abbattere le frontiere, voglio solo studiare e raccontare le cause dei flussi migratori nelle parti di mondo in cui mi trovo: povertà e violenza, due cose che si autoalimentano e che, nel caso centro-americano, trovano radici nelle politiche statunitensi di aggressione economica e in quelle di sudditanza messicane. E fino a che l’iperliberismo e le bande criminali detteranno legge in Centro-America non ci sarà muro che tenga. Neppure le torride temperature del deserto di Sonora fermeranno chi fugge: tra una morte probabile tra i cactus dell’Arizona e una certa nei villaggi del Salvador, in tanti sanno perfettamente cosa scegliere.
A Tijuana, a poche decine di metri dal muro, c’è un canale secco. Sulle sponde ci sono dei buchi nel terreno scavati da uomini che ci vivono dentro e per dimenticarlo si ubriacano con alcol a buon mercato o fumano crack. Ma preferiscono vivere come topi piuttosto che tornare a casa loro. A Mexicali hanno costruito molti tunnel per eludere la barriera. Quelli più grandi li hanno fatti scavare i narcotrafficanti. Per ogni tunnel scoperto dalle autorità, ne costruiscono altri cinque. Chi ha denaro può comprare una casa da una parte e dall’altra del muro. Migranti e narcos entrano in un tinello in Messico ed escono da un bagno in California. La droga continua a passare. A Nogales ci sono negozi specializzati per il climbing degli immigrati. Vendono scarpe e guanti per saltare il muro e borsoni comodi dove poter disporre lo stretto necessario.
Questo è il mondo che sto vedendo ed è un mondo desolato, ingiusto ma allo stesso tempo limpido. Sono limpide le ragioni che incrementano i flussi migratori come limpidi sono gli eventi che le hanno concepite. Limpide sono le convinzioni di chi fugge e altrettanto limpide quelle di chi pensa che innalzare il muro sia la soluzione. Guardando quei chilometri di barriera non si può non pensare che la globalizzazione abbia garantito più diritti alle merci che alle persone e non si può non tifare per chi prova a scavalcare. Ma usando la testa non si può neppure pensare che sia l’accoglienza a ogni costo la chiave per affrontare i flussi migratori. Non è più sostenibile e non dal punto di vista economico. Non è più logicamente sostenibile concentrarsi sugli effetti ignorando le cause. Non è più sostenibile un dibattito che, dalle nostre parti, si nutre di scaramucce tra chi pronuncia insensate parole su fantomatiche pacchie finite e chi risponde indossando inutili magliette rosse.
Chi attraversa il deserto di Sonora o il Canale di Sicilia ha il diritto di essere salvato, ma costoro partono perché gli è stato negato un altro diritto: quello di restare a casa loro. E spesso proprio le politiche portate avanti dai paladini dell’accoglienza hanno negato tale diritto ancestrale. Lo hanno negato ai giovani messicani come ai giovani italiani ed è per lavarsi la coscienza che i politici della sinistra globalista tessono le lodi dell’immigrazione.
Quando lavoravo nella cooperazione pensavo che soltanto la solidarietà internazionale fosse la risposta. Oggi, nonostante continui a sostenere un’organizzazione che non ha mai tradito la mia fiducia, credo che il mio ragionamento fosse egoista. Perché poneva al centro, sempre e comunque, l’uomo bianco. L’uomo bianco che toglie e l’uomo bianco che dà. Ci sono aree del mondo dove i danni dell’occidente sono ormai irreparabili senza un ulteriore intervento occidentale. Tuttavia la risposta non può essere “aiutiamoli a casa loro”. E non perché si tratta di una risposta di destra, ma perché spesso l’Occidente ha aiutato solo per poter dormire di notte. L’ha fatto per sentirsi meno in colpa, come chi fa dieci minuti di esercizi mattutini per poter mangiare a volontà a pranzo. È questa, alla lunga, la risposta che migliorerà l’Africa o il Centro-America?
Si parla tanto dei diritti delle minoranze. D’accordo, e dei diritti della maggioranza chi se ne occupa? Non mi riferisco soltanto a quella maggioranza che nei quartieri popolari vive il dramma dell’insicurezza legata alla mancanza di gestione dei flussi migratori. Mi riferisco a quella maggioranza di africani o centro-americani che per affetto, orgoglio o vecchiaia non lascerà la propria casa. Molti di loro non aspettano qualcuno che li salvi, gli basterebbe essere lasciati in pace.