I Giochi di Pyeongchang, che a scriverlo e a pronunciarlo quasi si confonde con Pyongyang, sono un’affermazione della geopolitica dello sport: non un trionfo, ma uno dei momenti più alti. Perché, in passato, le Olimpiadi dei tempi moderni hanno raramente rispettato la tradizione – più leggenda che storia – secondo cui le Olimpiadi dell’antichità segnavano una tregua di tutte le guerre; di fatto, gli atleti potevano raggiungere Olimpia senza essere importunati, sempre che i briganti di strada dell’epoca fossero ‘sportivi’.
L’ammissione, in extremis, della Corea del Nord ai Giochi, la sfilata degli atleti delle due Coree dietro un’unica bandiera, la stretta di mano tra il presidente del Sud Moon Jae-in e la sorella minore del dittatore del Nord Kim Yo-jong, la presenza del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e anche lo sgarbo del vice-presidente Usa Mike Pence, che evita d’interagire con i nord-coreani, nonostante l’alleato Moon ci tenga, sono segni che il germoglio della tregua dei Giochi potrebbe portare il fiore della pace. Non ci siamo ancora. E, forse, non ci arriveremo neppure: Kim il dittatore dà segnali contraddittori, atleti, dignitari, orchestra ai Giochi e parata militare nella sua capitale; Trump il presidente parla come se non vedesse l’ora che ‘sta pantomima finisca e si torni ai toni di sfida che gli si addicono.
Non è neppure la prima volta che le Olimpiadi, estive o invernali, come pure i Mondiali di calcio, compiono miracoli politici: nel dopoguerra, la Germania gareggiò più volte a squadre unificate; e, negli anni Duemila, le due Coree si presentarono già insieme, anche a Torino 2006. Per non parlare di Paesi dilaniati dalla guerra civile che ritrovano l’unità nazionale il tempo d’un sogno mondiale: capitò in Iraq ed è capitato, più di recente, in Siria. Ma, in genere, nell’era moderna, è stato piuttosto il contrario. Le guerre, invece di essere congelate dai Giochi, li hanno fatto saltare: accadde nel 1916 e ancora nel 1940, quando a Roma era già stato costruito lo Stadio Olimpico, e nel 1944. Dopo il secondo conflitto mondiale, Corea, Vietnam, fino alla guerra al terrorismo tra Afghanistan e Iraq non hanno più impedito i Giochi, ma le armi non hanno certo taciuto in loro onore.
Per tutta una stagione, le Olimpiadi sono state occasione di prese di posizione politiche, di proteste e di violenze: la stizza di Hitler per i successi di Jesse Owens, un nero, a Berlino 1936; il guanto anti-razzismo di Tommie Smith e John Carlos sul podio dei 200 piani, a Città del Messico 1968; il massacro – firmato Settembre Nero – degli atleti israeliani al Villaggio Olimpico di Monaco di Baviera 1972; e poi i boicottaggi degli africani a Montreal 1976, degli Occidentali a Mosca 1980 – causa l’invasione dell’Afghanistan – dei sovietici e dei loro sodali per ritorsione a Los Angeles 1984. Più di recente, la bomba ad Atlanta 1996. Ed è solo un’antologia d’episodi. Del resto, pure Pyeongchang è teatro di una guerra: al doping, ma anche, con il pretesto del doping, alla Russia, già esclusa da Rio de Janeiro. Il Tribunale arbitrale dello sport ha respinto proprio ieri gli ultimi ricorsi: gli atleti russi pagano colpe loro e delle loro federazioni, ma anche l’accanimento del Cio contro l’Orso sportivamente malconcio.