Alle 9:30 del 18 aprile 1978, mentre l’acqua continuava a colare al piano di sotto del covo di via Gradoli, un giornalista de Il Messaggero ricevette una telefonata di “voce maschile, con accento romanesco, ma non di borgata”, che annunciò di avere lasciato un comunicato delle Brigate rosse in un cestino dei rifiuti di piazza Gioachino Belli, nel quartiere romano di Trastevere. Il volantino annunciava “l’avvenuta esecuzione del presidente della Dc Aldo Moro, mediante ‘suicidio’” e forniva le coordinate per recuperarne la salma “immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del lago Duchessa, alt. mt. 1800 circa località Cartore (RI) zona confinante tra Abruzzo e Lazio”. Rispetto ai messaggi precedenti questo volantino presentava evidenti differenze: aveva uno stile satirico, era più breve, riportava grossolani errori di ortografia di origine romanesca (“soppruso”, “inpantanato”, “trà”) ed era privo dei consueti riferimenti politico-ideologici brigatisti. Inoltre era stato distribuito soltanto a Roma e in formato non originale mentre l’intestazione “Brigate rosse” risultava scritta a mano. Si sarebbe detto un falso grossolano o lo scherzo di un buontempone, se a tempo di record tre periti scelti dal Viminale non ne avessero solennemente ribadito l’attendibilità. Fatto sta che alle 11:30, quando ormai la caduta del covo di via Gradoli, dopo l’intervento dei Vigili del fuoco era divenuta di dominio pubblico, gli elicotteri già volteggiavano sul lago della Duchessa, che non poteva essere raggiunta da mezzi motorizzati, ma soltanto a piedi dopo tre ore di duro cammino in mezzo alla neve alta.
La superficie del lago era ghiacciata e una nevicata recente, oltre a nascondere possibili tracce fresche, rendeva le operazioni ancora più impervie. L’evidenza di questi dati non scoraggiò le fonti governative che si impegnarono, una velina dopo l’altra, ad accreditare l’autenticità del messaggio trovando nei mezzi di comunicazione, in nome di sua maestà la “Cronaca in diretta”, dei compiacenti quanto acritici amplificatori. Anzi, proprio la televisione contribuì a trasformare l’evento, che rivaleggiava sul piano comunicativo con le zoommate dell’interno piccolo borghese del covo di via Gradoli, in un interminabile e angoscioso circo mediatico: così i telegiornali fecero entrare nelle case degli italiani le grottesche immagini di alcuni sommozzatori scafandrati, costretti a infilarsi in un buco da loro stessi provocato facendo saltare una mina, tanto era spessa la lastra di ghiaccio che ricopriva il lago e dove, chissà quando e come, il corpo di Moro sarebbe stato gettato da una fantomatica brigata di “alpinisti rossi”.
Nelle stesse ore, Moro dovette essere informato di quanto stava avvenendo all’esterno perché con toni sarcastici e insinuanti lo definì in una pagina del memoriale “la macabra grande edizione della mia esecuzione [che] può rientrare in una logica, della quale non è necessario dare ulteriori indicazioni”. Un sospetto, condiviso anche dai suoi familiari, i quali, in una telefonata intercettata nel pomeriggio del 18 aprile, commentarono: “Molto sporca questa storia, molto poco rossa”. Oggi sappiamo con certezza che sia Moro da dentro la prigione, sia i suoi congiunti da fuori, colsero in presa diretta nel segno. In effetti, nel corso degli anni, si stabilirà che il falso comunicato fu redatto da un abile falsario di quadri d’arte contemporanea, in particolare di Giorgio de Chirico, di nome Antonio Chichiarelli, una figura di cerniera tra mondi diversi, in rapporti accertati con la Banda della Magliana, ma anche con i Servizi segreti italiani e il Nucleo dei carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, ucciso da ignoti nel settembre del 1984.
Nel 2006, in un libro-intervista, Steve Pieczenick, esperto di antiterrorismo (e dunque di terrorismo) inviato dal Dipartimento di Stato americano sullo scenario di crisi italiano, ha testimoniato di avere discusso con il ministro degli Interni Francesco Cossiga e con alcuni esponenti dei Servizi, tra cui il criminologo Franco Ferracuti, la realizzazione di un falso comunicato, a suo dire un’“operazione psicologica” funzionale a preparare l’opinione pubblica italiana e quella europea all’eventuale decesso di Moro. Nel medesimo libro, il direttore de il Manifesto Valentino Parlato ha raccontato di essere stato invitato a pranzo da Cossiga con altri giornalisti al Viminale proprio il 18 aprile trovandosi in un clima “surreale e sconcertante” tanto da credere di “avere le allucinazioni”: “Parlammo di tutto tranne che di quella notizia, come se non ci fosse ragione di agitarsi”, ma era evidente il gusto di rendere il palazzo del potere trasparente a un gruppo selezionato di giornalisti tra i più influenti.
In realtà, se non si fossero celebrati negli anni Novanta due clamorosi processi giudiziari, del tutto inimmaginabili nel 1978, gli effettivi comportamenti dispiegati dalle forze dell’antiterrorismo il 18 aprile, con l’operazione del covo di via Gradoli e quella del falso comunicato, sarebbero rimasti per sempre avvolti nella nebbia delle dietrologie. Il primo processo riguardò lo scandalo dei “fondi neri” del Sisde, che ha consentito di ricostruire una mappatura di società immobiliari legate ai Servizi segreti che riconduce con certezza sino all’appartamento adiacente al covo occupato da Mario Moretti in via Gradoli, 96. Il secondo è il processo per la morte del giornalista Mino Pecorelli, ucciso a Roma nel marzo del 1979, che ha visto il sette volte presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, accusato di essere il mandante dell’omicidio, risultando assolto in primo grado, condannato in secondo e assolto in via definitiva in Cassazione per non avere commesso il fatto. Nel corso di quel processo, un altro imputato, il magistrato ed ex ministro democristiano Claudio Vitalone, fedelissimo di Andreotti, ma consapevole di rischiare anche lui una pena elevatissima, differenziò la propria strategia difensiva da quella dell’ex presidente del Consiglio. Una scelta processuale che si rivelò prudente quanto efficace dal momento che, diversamente da Andreotti, egli è stato assolto in tutti e tre i gradi di giudizio con formula piena.
Questa divaricazione però indusse Vitalone a raccontare nel 1993 e nel 1995 alla magistratura quanto egli aveva saputo circa il falso comunicato del Lago della Duchessa, rivelando così alcuni aspetti che, senza quell’inaudita pressione processuale, sarebbero forse rimasti ignoti per sempre. Egli dichiarò di avere pensato di procedere alla fabbricazione di un falso comunicato, ovviamente prevedendo l’intervento degli organi di polizia giudiziaria, perché mosso dal timore che le Brigate rosse avessero potuto sopprimere l’ostaggio continuando a gestirlo con l’esterno come se fosse ancora vivo. Era dunque necessario avere una prova dell’esistenza in vita di Moro e l’unica strada percorribile era quella di suscitare una risposta delle Brigate rosse propalando la falsa notizia che egli era stato da loro ucciso. Il problema, infatti, per Vitalone era la “riconoscibilità di coloro che detenevano l’ostaggio”. Bisognava quindi “far diramare un comunicato apocrifo per disorientare le Br”, la cui autenticità poteva essere “strumentalmente attestata da organi di polizia scientifica”. Vitalone spiegava che l’idea era stata lasciata cadere e di essere “trasalito” quando l’aveva vista messa in pratica il 18 aprile senza alcun preventivo coinvolgimento dell’autorità giudiziaria. Nuovamente interrogato nel 1995, aggiunse: “La mia riflessione schematica era questa: se noi lasciamo che le Br muovano i due pezzi della scacchiera, la partita è perduta. Noi dobbiamo inventare una mossa che costringa le Br a rimeditare il loro progetto”.
L’idea di Vitalone di quei giorni e le sue preoccupazioni di investigatore erano certamente influenzate da una recentissima e drammatica esperienza che aveva coinvolto la Procura di Roma di cui allora faceva parte. Infatti, nel corso del sequestro del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, avvenuto a Roma il 7 novembre 1977 a opera di alcuni esponenti del nucleo originario della cosiddetta “Banda della Magliana”, la famiglia dell’ostaggio aveva pagato il riscatto il 4 marzo 1978, aggirando le interdizioni della magistratura e delle forze di polizia, quando in realtà il congiunto era già morto. Vitalone sapeva che durante il sequestro i rapitori avevano fatto pervenire almeno due foto dell’ostaggio, con un’iconografia del tutto simile a quella utilizzata dalle Brigate rosse negli stessi giorni con Moro, ma con un particolare macabro in più: l’ultima foto, quella che aveva indotto il figlio a pagare, era in realtà l’immagine del cadavere del duca congelato che teneva in mano una copia de La Nazione tra le mani, utile a provarne l’esistenza in vita.
Oggi nessuno lo ricorda più, ma in quei giorni a Roma erano in corso altri tre sequestri di persona a opera della criminalità comune (Michela Marconi, Angelo Apolloni e Giovanna Amati) e la foto del duca Grazioli era stata pubblicata nella cronaca di Roma dal Corriere della Sera il 7 aprile 1978, dunque in pieno sequestro Moro, con l’appello della figlia a liberare il congiunto ormai già deceduto e la drammatica aggiunta: “La magistratura non esclude che sia stato ucciso”. Sotto la foto del duca Grazioli, che ricordava quella di Moro distribuita dalle Brigate rosse il 18 marzo, compariva un articolo in rilievo intitolato “Cerimonia dei partigiani cristiani sul luogo dell’eccidio in via Fani”, stabilendo così una connessione tra i due episodi non giustificata dall’economia della pagina, trattandosi della cronaca di Roma.
Sempre negli stessi giorni, era convincimento comune tra gli investigatori e anche tra uomini politici avveduti come Bettino Craxi che, dentro la colonna romana delle Brigate rosse, potessero convivere, sul piano organizzativo, un’anima politica e una più schiettamente delinquenziale, contigua sotto il profilo logistico (gestione dei covi, commercio delle armi, produzione dei documenti e delle soffiate) a quella criminalità comune che stava gestendo nello stesso periodo e nella medesima città altri tre sequestri di persona.
Occorre anche rilevare che la produzione di comunicati apocrifi è una prassi non infrequente nell’antiterrorismo italiano e internazionale. Essa, infatti, consente di destabilizzare l’avversario, di controllare e di manipolare una strategia di disinformazione, di confondere e sparigliare il fronte, di prendere l’iniziativa inserendo della moneta falsa, ma certificata, per poi analizzare i comportamenti della controparte. Prova ne sia che tra la primavera e l’estate del 1981, durante i sequestri di Ciro Cirillo e di Giuseppe Taliercio è stato accertato che il Sisde produsse altri comunicati brigatisti con finalità simili a quelle del falso messaggio del Lago della Duchessa. In quei giorni, l’antiterrorismo aveva soprattutto due preoccupazioni, che sono entrambe la spia di una trattativa segreta entrata ormai in una fase avanzata e forse conclusiva: anzitutto ottenere una prova certa dell’esistenza in vita di Moro; in secondo luogo accertarsi che l’ostaggio fosse ancora detenuto dalle Brigate rosse e non fosse passato di mano, una prassi più comune di quanto si pensi nei sequestri di persona, anche di matrice politica.
L’azione di disinformazione e di controguerriglia psicologica del Lago della Duchessa si mostrò efficace perché le Brigate rosse il 20 aprile 1978 furono costrette a rilasciare un comunicato che conteneva una seconda foto di Moro con in mano la copia del quotidiano Repubblica del 19 aprile. Nel messaggio si annunciava che il processo era finito, che Moro era stato condannato a morte “così come è stata condannata la classe politica che ha governato per trent’anni il nostro Paese”, ma si annunciava un’importante novità: “Il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione della liberazione di prigionieri comunisti”, per la quale si dava un ultimatum di due giorni. A proposito del falso comunicato del Lago della Duchessa (una “macabra messa in scena” e una “lugubre mossa degli specialisti della guerra psicologica, la preparazione del ‘grande spettacolo’ che il regime si appresta a dare, per stravolgere le coscienze, mistificare i fatti, organizzare intorno a sé il consenso”) i brigatisti indicavano con sicurezza “gli autori: Andreotti e i suoi complici” – oggi sappiamo – cogliendo nel segno con millimetrica precisione. Dopo decenni di reticenza, una serie di testimoni oculari hanno raccontato che, nelle stesse ore, ma sulle sponde di un altro lago, quello di Castel Gandolfo, Paolo VI e la famiglia pontificia avevano ormai ultimato la raccolta di dieci miliardi di lire che sarebbero dovuti servire come riscatto in cambio della libertà di Moro. Ovviamente, soltanto dopo avere accertato la sua esistenza in vita e l’effettiva attendibilità di quanti sostenevano di avere nella loro disponibilità l’ostaggio, per evitare di fare la recente fine dell’aristocratico Grazioli. Di conseguenza, per comprendere il rapporto intercorrente tra l’azione del presidente del Consiglio Andreotti, i Servizi segreti e i vertici dell’antiterrorismo che dalla sua autorità esecutiva e gerarchica dipendevano, la trattativa vaticana e il falso comunicato del Lago della Duchessa bisogna, come sempre, follow the money. Senza però dimenticare un particolare: il galateo del “partito armato”, proprio come quello dei salotti alto borghesi, aveva insegnato ai suoi rampolli che non è mai elegante parlare di soldi.
(7 – continua)