Giovani, a volte giovanissime. Le prostitute segregate dalla mafia nigeriana nelle connection house di Castel Volturno sono piccole donne ribelli e disperate, ingabbiate in casa perché si teme che possano fuggire. Al contrario di quelle ritenute più malleabili e mandate in strada a vendersi a 20 euro, queste ragazze non hanno una madre, una sorella, un fratello, un fidanzato. Non hanno un affetto. E allora comprano un peluche. E lo abbracciano per ore, tra un cliente e l’altro. Diventa la zattera a cui aggrapparsi quando emotivamente si rischia di annegare. Ognuna di loro ha il “suo” peluche. Come una bambina. E la sua Bibbia (che tengono sempre in stanza, sul comodino).
Definirla casa di prostituzione è riduttivo. La connection house, uno dei marchi di fabbrica della mafia nigeriana, è un luogo di sospensione della legalità. È una casa divisa in diversi piani, dove entri per “chiedere” una donna (e in quel caso sali nelle stanze da letto), o per acquistare armi e droga, per giocare d’azzardo o semplicemente per mangiare cibo africano cucinato dalle cosiddette Maman, figure chiave che raccolgono i soldi e controllano e gestiscono le ragazze quotidianamente. Nei racconti dei collaboratori di giustizia, le connection house sono anche i punti di intermediazione di commerci irriferibili. Se vuoi comprarti un rene, passi da qui. Ci pensano i “Black Axe”, sono loro che trafficano organi umani, secondo quanto emerso. In genere chi è implicato in questa attività non ha contatti con gli altri, si tiene in disparte. Attende una chiamata dalle connection house.
Sono poco più di bambine, le donne intrappolate dalla tratta di esseri umani gestita dalla mafia nigeriana. Sulle loro vite, lucrano centinaia di migliaia di euro, tra i proventi del sesso a pagamento e i riscatti che le ragazze devono pagare per liberarsi dall’orrore della schiavitù. C’è un tariffario, ci sono delle procedure. La mafia nigeriana, si apprende dalle carte delle inchieste agli atti della Dda di Napoli, acquista le ragazze a 5.000 euro e le fa arrivare in Italia clandestinamente. Sono circa 11.000 le donne nigeriane – secondo i dati del progetto antitratta della Regione Campania – che raggiungono ogni anno il territorio italiano. E più dell’80% di loro transita prima o poi per Castel Volturno e il Litorale Domizio. Le ragazze sono costrette a lasciare l’indirizzo e il cellulare dei familiari rimasti in Africa: saranno i primi a essere colpiti se si rifiutano di obbedire. Poi vengono obbligate a prostituirsi, sulla Domiziana o nelle connection house per poche decine di euro a prestazione sessuale, dove pagano l’affitto della stanza in cui ricevono i clienti.
“Il cliente salda direttamente alla prostituta la quale poi consegna una parte del denaro alla Madame”, racconta a verbale il pentito Twumasi Collins. “Periodicamente alcuni esponenti degli ‘Eye’ fanno il giro delle connection house e raccolgono dalle Madame la parte spettante all’organizzazione criminale”. È un meccanismo oliato, e conosciuto, che resiste ai colpi della legge. La caserma dei carabinieri di Grazzanise (Caserta) ha compiuto dieci arresti per sfruttamento della prostituzione nera nell’ultimo anno: donne, si annota nei rapporti inviati nelle procure, a disposizione dei “bianchi”, gli italiani.
Per riscattarsi, le donne devono versare fino a 60.000 euro, e ci vogliono molti anni, durante i quali vengono gestite dalle Maman o Madames, di solito ex prostitute riscattate. Persino le ragazze che arrivano in gravidanza devono comunque prostituirsi, “e se non lo fanno – si legge nelle carte – le costringono a vendere il loro bambino”. Una volta concluso il pagamento, il bivio: scappare alla ricerca di una vita normale, o diventare a loro volta Maman e amministrare una connection house. In quel caso, la tassa da pagare è di 6.000 euro alla Maman che le ha gestite fino ad allora.
Hellen stava per diventare una di loro. È riuscita a darsi alla fuga, aiutata da Christopher Schule, il pentito di Castel Volturno, l’uomo che l’aveva accolta nei primi giorni difficili. La mafia nigeriana lo ha cercato, lo ha minacciato. In venti lo hanno circondato: Christopher doveva risarcirli di 40.000 euro: “Sei tu che l’hai fatta scappare”. Schule è stato salvato dai vicini. Hellen ha raccontato tutto ai carabinieri. “Sono nata ad Abia State in Nigeria, sono figlia unica. Ci fu una lite in famiglia sulla proprietà di un terreno e mio padre fu ucciso da alcuni familiari. Mia madre mi rifugiò da una amica a Medugri. Nel 2009 un cugino mi localizzò, mi voleva uccidere. L’amica mi fece scappare in Libia con sua figlia in auto. Ho vissuto due anni a Bengasi, facevo la domestica, ho incontrato il padre di mia figlia. Allo scoppio della guerra in Libia, fuggii in barca a Lampedusa, senza pagare niente per il viaggio. Ero incinta”. Poi il centro di accoglienza. Il marito che la abbandona. La figlia che le nasce mentre lei è a Bari. Una conoscente le dà il numero di una Maman di Castel Volturno che le paga il viaggio in treno. Hellen entra nella connection house, capisce subito cosa vogliono da lei. Si rifiuta. Trova ospitalità da Cristopher: cucina cibo africano che vende agli immigrati. La mafia nigeriana l’ha rintracciata: in quattro le hanno sfasciato il locale. Lei ha resistito. Ha detto no. Ha denunciato. E si è ripresa la sua vita.