Se volete capire perché l’Italia sembra così immobile, periferica, sempre uguale, andate a vedere come la scuola insegna la cultura nazionale – che in Italia è quasi solo cultura umanistica – nelle scuole. Con il dogma dei Promessi sposi applicato dalle Indicazioni del ministro Guido Baccelli nel 1881 e la Divina Commedia spalmata su tre anni del liceo perché questa sembrava una buona idea al ministro Michele Coppino nel 1884. E poi chiedetevi quello che si è chiesto Claudio Giunta docente di Letteratura italiana all’Università di Trento, tra gli accademici italiani più brillanti: “E se non fosse la buona battaglia?“, questo il titolo della sua raccolta di saggi pubblicata dal Mulino. E se il modo di trasmettere un’identità culturale e sociale che passa soprattutto per la letteratura – nelle scuole ma anche in Rai e nei festival – fosse parte del problema e non della soluzione ai guai di questo Paese?
Giunta ha da poco curato un manuale per le superiori, ha girato decine di scuole, ha assistito alla didattica, ha dovuto dimostrare anche a se stesso di essere capace di non replicare errori che contesta ad altri. E poi ha pubblicato un libro che raccoglie le sue riflessioni, maturate anche nella redazione del manuale.
Il primo filone di analisi riguarda il “cosa” si insegna: la scuola è stretta tra un’ossessione per la conservazione, per cui il sapere deve essere trasmesso immutabile di generazione in generazione, e una altrettanto ossessiva ricerca di innovazione che finisce poi soffocata dal linguaggio burocratico dei documenti ministeriali, da progetti sempre incompiuti (i corsi di approfondimento al pomeriggio, le scuole aperte d’estate, i progetti, l’alternanza scuola lavoro). Resiste un approccio nozionistico scolorito che, alla fine, si limita a dare un’infarinatura di tutto. Mentre, osserva Giunta, la scuola dovrebbe insegnare a leggere, a usare i libri come strumento di vita, più che a ricordarsi anche a distanza di anni i versi della Cavalla storna di Giovanni Pascoli. Meglio tagliare autori minori e sacrificare alcune opere di quelli grandi se questo è il prezzo per dare modo agli studenti di assaporarne qualcuna e, magari, di scoprire che oltre alla poesia e alla narrativa esiste la saggistica, che saper argomentare è altrettanto importante (e, perché no, utile) che cantare in versi l’amore.
Poi c’è il “come” si insegna e si studia. Mentre al ministero si scrivono circolari sugli smartphone in classe o sulla necessità di dotare gli insegnanti di tablet destinati all’obsolescenza in un paio d’anni, in aula la didattica si riduce troppo spesso alla fredda analisi, a smontare il “meccanismo narrativo”, a fare l’autopsia di testi che invece dovrebbero risultate vivi, o che comunque lo sono stati in un certo momento.
Gli insegnanti sono demotivati da stipendi troppo bassi, dall’assenza di una prospettiva di carriera e da mancanza di stimoli. Lamentele tipiche di ogni testo dedicato alla scuola, che Giunta non sottovaluta certo, ma che considera parte del problema, non il cuore. Perché molti insegnanti sono e sarebbero bravissimi ed efficaci anche con stipendi miseri. Ma ogni loro slancio viene frustrato da programmi ministeriali insostenibili e da un sistema di valutazione e aggiornamento che sembra premiare l’indole burocratica o la disponibilità a partecipare ad attività collaterali invece che la capacità di insegnare (per quanto sia difficilissimo).
E infine c’è il “perché”. Claudio Giunta offre una utile spiegazione della furia che travolge chiunque si limiti a osservare l’ovvio, cioè che, a prescindere dal valore intrinseco della materia, chi ha una formazione umanistica trova meno lavoro di chi studia ingegneria o economia. Per decenni, soprattutto nel dopoguerra, l’istruzione umanistica era sinonimo di ascensore sociale. Chi sopravviveva al liceo classico era, per definizione, parte dell’élite. Le versioni di latino e greco, insomma, sono state a lungo un mezzo più che un fine, come in quei film americani dove gli aspiranti marine sono sottoposti alle prove più assurde al solo scopo di allontanare i deboli.
Oggi il liceo classico non è molto più facile, ma è cambiata la sua funzione: non basta più come ascensore sociale garantito, a quello scopo sono più efficaci altri studi, quelli scientifici seguiti da specializzazioni più applicate. Che i filologi o i filosofi siano richiestissimi dalla finanza o dal marketing è una bufala a cui credono solo gli organizzatori dei meeting di orientamento agli studenti. Studiare le humanities, insomma, rende specialisti di humanities, adatti a una carriera universitaria o di insegnante. È quindi fisiologico che i numeri si riducano e pure lo status di chi ha questa formazione.
Dunque è tutto inutile, non è una “buona battaglia”? Sì e no. Claudio Giunta considera un privilegio aver passato una vita tra i libri, a leggere e studiare. E chiunque sia abbastanza interessato al tema dal leggere il suo saggio non potrà che essere d’accordo: è una vita ben spesa. Ma Giunta è anche consapevole di essere uno degli ultimi esponenti di una generazione fortunata (ha 46 anni). Quella successiva non avrà le stesse opportunità. Soltanto sfrondando di retorica e presunzione l’insegnamento delle discipline umanistiche sarà possibile salvarle dal declino a cui sembrano destinate. Per colpa di un mondo che non le valorizza, certo, ma anche per come vengono presentate dai docenti.