La parata del 2 giugno, una puntatina a Palazzo Chigi e una nel suo nuovo ufficio. È il primo giorno da ministro per Luigi Di Maio, anzi da superministro visto che ha chiesto e ottenuto la fusione dei ruoli tra capo dello Sviluppo economico, che erano già tre ministeri in uno, e quello del Lavoro e Politiche sociali: la battaglia per le sue deleghe a viceministri e sottosegretari sarà uno spasso. “Perché ho chiesto di unire questi due ministeri? – s’è domandato ieri – Perché il datore di lavoro e il suo dipendente non devono essere nemici, non devono essere due realtà staccate”. A pacificarle, pare, ci penserà lui.
Di Maio, che in questa fase post-elettorale è parso un politico piuttosto fragile, sembra troppo ottimista visto che le priorità che ha indicato ieri in una diretta Facebook dal suo nuovo ufficio sono altrettante mine piazzate sulla sua strada. La prima è di natura squisitamente politica: “Il Jobs act va rivisto, c’è troppa precarietà. La gente non ha certezza neanche più per prenotarsi le vacanze non solo per sposarsi. Se dobbiamo dare più forza all’economia la dobbiamo ridurre”. Parole sante e necessità confermata dai numeri sull’occupazione: gli unici lavori a crescere sono quelli a termine. Quanto alla “revisione” del Jobs act, però, non sarà così semplice come il capo grillino pare pensare. Nel famigerato contratto c’è poco e nulla: “Particolare attenzione sarà rivolta al contrasto della precarietà, causata anche dal Jobs act, per costruire rapporti di lavoro più stabili e consentire alle famiglie una programmazione più serena del loro futuro”.
Il governo reintrodurrà l’obbligo di reintegro per i licenziamenti senza giusta causa? La partita è tutta qua: il programma 5 Stelle prevedeva il ripristino dell’articolo 18, quello della Lega no e per la buona ragione che nella sua base elettorale c’è anche molta impresa, un mondo che ha assai gradito la libertà di licenziamento concessa da Renzi.
Nel contratto, poi, non si cita mai il decreto Poletti, che ha del tutto “liberalizzato” l’uso dei contratti a termine: è questo lo strumento che ha di gran lunga spinto di più la precarizzazione del lavoro negli ultimi anni. Quel che c’è invece, nell’accordo gialloverde, è l’introduzione di uno strumento telematico “per la gestione dei rapporti di lavoro accessorio”: cioè la reintroduzione totale dei voucher. Insomma, sul lavoro il contratto è più verde che giallo.
Quel ministero (il Lavoro in questo caso) serve però a Di Maio soprattutto per altre due questioni: il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, che poi in realtà è una classica politica attiva del lavoro di natura temporanea, e la riforma della legge Fornero sulle pensioni. Il primo capitolo andrà impostato attraverso la riforma e il potenziamento dei centri per l’impiego (“sono di competenza delle Regioni, lavorerò con loro”); il secondo potrebbe partire subito con la “quota 100” (può andare in pensione chi arriva a 100 sommando età anagrafica e contributiva). In entrambi i casi, questioni di compatibilità finanziaria a parte, Di Maio dovrà lavorare contro il presidente dell’Inps Tito Boeri, uomo dalla discreta batteria di fuoco mediatica e che ha ormai “domato” i contropoteri interni e controlla il più grande istituto di previdenza d’Europa, teoricamente controllato dal ministero del giovane Luigi.
Il primo ostacolo in ordine temporale, però, è anche il più pericoloso: Ilva. Nel contratto si parla di “concretizzare i criteri di salvaguardia ambientale secondo i migliori standard mondiali” e di “un programma di riconversione economica basato sulla progressiva chiusura delle fonti inquinanti”. La situazione è questa: gli stabilimenti del gruppo che fu dei Riva dovrebbero passare in carico ad Arcelor Mittal, che ha vinto la gara indetta dal ministero dello Sviluppo, entro fine giugno. Il problema, attualmente, è che non c’è l’accordo tra nuova proprietà e sindacati sugli stipendi (Mittal li vuole tagliare) e i livelli occupazionali (previsti 4mila esuberi).
Anche senza un’intesa, peraltro, dal 1° luglio Mittal potrebbe iniziare a gestire Ilva e procedere alle assunzioni con le modalità che crede, ma non è certo sia una buona idea: “Gli servirà l’esercito per entrare”, ha fatto sapere la Fiom ligure. I tempi sono stretti: l’ex ministro Carlo Calenda ha minacciato “l’esaurimento della liquidità di cassa di Ilva per il 30 giugno” e l’azienda al momento brucia 30 milioni al mese. È un gran casino e, attorno al capo grillino, più d’uno s’è convinto che alla fine anche la proprietà stia seriamente pensando di lasciar perdere e far chiudere l’Ilva. A quel punto il superministro Di Maio avrebbe subito il suo brand: l’uomo che ha fatto chiudere Ilva.