Non c’era miglior modo di ricordare il 26° anniversario della strage di via D’Amelio che depositare proprio il 19 luglio le motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafia. Quella della Corte d’Assise di Palermo che il 20 aprile ha condannato tre alti ufficiali del Ros (Subranni, Mori e De Donno) e l’ideatore di FI (Dell’Utri) con i mafiosi Bagarella e Cinà per quel turpe mercimonio che pose sotto ricatto lo Stato e sacrificò almeno 20 morti ammazzati. Una sentenza che, da quel poco che siamo riusciti a leggerne ieri, tutti gli italiani dovrebbero conoscere. E il Fatto si attiverà con ogni mezzo per divulgarla e rompere lo scandaloso muro di ignoranza, indifferenza e negazionismo che ha accompagnato tutto il processo da parte di istituzioni, partiti, apparati dello Stato, pezzi di magistratura e stampa al seguito. Nei prossimi giorni, a puntate, esamineremo le 5252 pagine della sentenza. Ora ci concentriamo sui due capitoli più attuali e drammatici: il nesso fra la trattativa e l’omicidio Borsellino; e il ruolo di Dell’Utri e dunque di B. nel chiuderla nel ’94. Due piaghe purulente che, 26 anni dopo, continuano a inquinare la democrazia con i loro miasmi maleodoranti di omertà, insabbiamenti, ricatti.
L’accelerazione. La Corte afferma che i vertici del Ros del 1992 e i loro mandanti (purtroppo occulti ma riferibili al primo governo Amato) hanno sulla coscienza gli omicidi di Borsellino e dei suoi angeli custodi. Fu la decisione di Subranni, Mori e De Donno di cedere al ricatto mafioso e di impiegare Ciancimino come intermediario con Riina che indusse i corleonesi ad accelerare l’esecuzione della condanna a morte del magistrato appena 57 giorni dopo quella di Falcone. Qualcosa o qualcuno – non nella mafia, ma nello Stato – aveva urgenza di eliminare Borsellino subito. E poi di far sparire la sua agenda rossa con gli appunti sulle ultime indagini e di depistare le indagini con falsi pentiti per sviare i sospetti dai veri colpevoli e dai loro suggeritori, affinché Borsellino fosse sepolto per sempre con le sue scoperte. Su Capaci e sulla trattativa. Su quella accelerazione – nota a tutti i conoscitori dei fatti, eppure pervicacemente negata da alcune inaudite sentenze collaterali – la Corte presieduta da Alfredo Montalto scrive parole cristalline. Ricorda che i pm sostengono “che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla ‘trattativa’… trova una qualche convergenza nel fatto che, secondo quanto riferito dalla moglie Agnese, Borsellino poco prima di morire le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi”.
Ma, anche se le cose non stessero così, “non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via D’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”. Ecco perché Mori, dopo aver trattato con Cosa Nostra nel 1992-’93 e averlo addirittura confessato nel ’97, non fu degradato sul campo, ma addirittura promosso nel 2001 dal governo B. a direttore del Sisde, il servizio segreto civile. Poi confermato nel 2006 dal centrosinistra. E infine premiato, dopo la pensione, come consulente per la sicurezza e il controllo sugli appalti dalle giunte di centrodestra Alemanno (a Roma) e Formigoni (in Lombardia), con i bei risultati a tutti noti.
Marcello&Silvio. Dopo le stragi della primavera estate del ’93 e il primo clamoroso cedimento del governo Ciampi – la revoca del 41-bis per 334 mafiosi a opera del Guardasigilli Conso –, si fa avanti il nuovo referente politico che chiude il cerchio, subentrando al Ros e pattuendo una lunga stagione di “pax mafiosa” per soddisfare le altre richieste avanzate da Cosa Nostra nel “papello”: Dell’Utri. Scrive la Corte d’Assise: “Con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell’Utri nella sua funzione di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992”. Non solo: “Ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con Cosa nostra mediati da Mangano”. Del resto fu B. che finanziò stabilmente Cosa Nostra per vent’anni, dal 1974: “Tali pagamenti sono proseguiti almeno fino a dicembre 1994”. Quando ormai B. era premier, dopo le stragi: “Vi è la prova che Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale nel quale incontrava Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi si attendevano dal governo… Ciò dimostra che Dell’Utri informava Berlusconi dei suoi rapporti con i clan anche dopo l’insediamento del governo da lui presieduto, perché solo Berlusconi, da premier, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo come quello tentato e riferirne a Dell’Utri per tranquillizzare i suoi interlocutori”.
L’ombra di Graviano. Le stragi s’interrompono nei giorni dell’annuncio della discesa in campo di B. (26.1.’94). Ma il ricatto continua tuttoggi. E qui la Corte valorizza le recentissime confidenze (gennaio 2016-marzo 2017) fatte al compagno di ora d’aria da Giuseppe Graviano, il boss che organizzò le stragi di via D’Amelio e poi di Firenze, Milano, Roma, sa tutto dei mandanti esterni e dei depistatori di Stato e non si rassegna all’idea di vederli a piede libero, o addirittura ancora in politica. Confidenze che i giudici ritengono genuine. In una, il boss “manifesta la convinzione che B. nel 1994 avrebbe abolito la pena dell’ergastolo… e il 41-bis… se non avesse trovato un’opposizione in altre componenti del governo”. E così, nel ’94, “non aveva mantenuto gli impegni presi” con Cosa Nostra. Perciò aveva avuto “timori allorché Graviano era stato chiamato a testimoniare nel processo Dell’Utri”. In effetti Graviano fa balenare spesso “una velata minaccia… collegata al possibile ripensamento sulla sua decisione di non ‘parlare’”. Sulle intercettazioni in cui Graviano cita B., i giudici respingono la trascrizione minimalista della difesa Dell’Utri (non “Berlusconi” ma “bravissimo”) e condividono quella del loro perito e della Procura: “Berlusca mi ha chiesto ’sta cortesia, per questo è stata l’urgenza di riri… cumu mai chissu… p’acchianari? Poi che successi? Siccomu iddu… l’elezioni… Berlusca… (inc.)rnari la Sicilia… Berlu…”.
Poi – si legge nella sentenza– “Graviano fa riferimento all’intendimento di Berlusconi di ‘scendere’ in Sicilia, al fatto che in questa regione ancora dominavano i ‘vecchi’ politici, ed alla richiesta che gli aveva fatto Berlusconi per una ‘bella cosa’”. Infine il boss “riferisce espressamente di aver conosciuto e incontrato Berlusconi e in particolare di essersi ‘seduti’ insieme (proprio ‘25 anni fa’, ndr) e di avere, insieme, ‘mangiato e bevuto’, mettendo ancora in evidenza la doppiezza del personaggio”. Parole che dimostrano, secondo la Corte, “il risentimento nei confronti di Berlusconi, per non avere questi mantenuto i patti, espresso tra la speranza di poter ancora ottenere qualche beneficio e più o meno esplicite minacce di riferire, direttamente o indirettamente, i rapporti con lui avuti prima di essere arrestato nel gennaio ’94”. È l’ennesima prova “delle assicurazioni che Berlusconi e Dell’Utri avevano dato a Graviano quando nel gennaio ’94 questi ebbe a manifestare particolare felicità a Spatuzza perché così si sarebbero ‘messi il Paese nelle mani’”. Ecco perché B. non si ritirerà mai dalla politica: gli amici degli amici non vogliono.