Escono con una cartella in mano e tanti pensieri in testa, i disoccupati di Stavanger, convocati oggi dall’Ufficio per l’Impiego al “Terminal”, un palazzo di vetro sul porto, nel fiordo di Byfjorden.
Da questa banchina, un tempo partivano i passeggeri per la Danimarca e l’Inghilterra. Oggi, potrebbero partire gli 822 convocati dall’Ufficio per l’Impiego, ma verso altre regioni della Norvegia.
È il giorno del Terminal Opportunity e una Regione viene a pesca di lavoratori. Stamattina è arrivata Gry Kristin Joerstad Vist, del Centro per l’Impiego della Contea di Oppland. Ha 30 posti da offrire: ingegneri, elettricisti, carpentieri. Ma per avere uno di questi contratti, il disoccupato deve spostarsi nell’Oppland.
“Sì, è dura, ma è un lavoro, dà dignità alla persona”, dice Truls Nordahl, direttore regionale del Nav, il Centro per l’Impiego che gestisce le pensioni e le politiche attive del lavoro. “I disoccupati devono mostrare di cercare un lavoro o di avere un progetto di formazione, altrimenti tagliamo l’assegno di disoccupazione”.
Benvenuti nel Rogaland, il cuore della produzione del petrolio norvegese, fino a tre anni fa una delle regioni più ricche del Paese, dove viveva la metà dei 200.000 impiegati nelle piattaforme al largo del Mar del Nord.
Poi, nel 2014, il prezzo del petrolio ha cominciato a calare, da 115 dollari al barile ai 52 di oggi. Ed è apparso il lavoro precario. Sono spartiti 50 mila posti in tre anni, il tasso di disoccupazione è salito dal 2,6 al 4,7%. E quando perdi un lavoro sicuro e ti ritrovi dall’oggi al domani con un assegno dello Stato, solo per due anni e un mutuo da pagare, scopri quel senso d’insicurezza che i precari italiani, greci e spagnoli conoscono bene.
La crisi picchia duro in questa regione. Però siamo in Norvegia, Pil pro capite tra i più alti al mondo (circa 70mila dollari l’anno, contro i 35mila in Italia e i 46mila in Germania) e soprattutto paese stabile, arricchitosi grazie alla scoperta del petrolio, nel 1969, nel Mar del Nord.
Dal 1990 è stato creato il Fondo per il Petrolio e il Gas, dove vengono investiti i proventi dell’oro nero. Oggi è il fondo sovrano più ricco al mondo, con un capitale di 698 miliardi di euro. Ma attingere a questi soldi finora è stato tabù per i norvegesi, si può usare massimo il 3% dei rendimenti del capitale (lo scorso anno “solo” 23 miliardi di euro). Questo contribuisce a permettere alla Norvegia di mantenere un welfare di lusso. E politiche attive per il lavoro, a cui molti politici nostrani potrebbero ispirarsi.
Il sistema pubblico funziona. Il Nav, l’ufficio per l’impiego, dispone di 15.000 impiegati (in Italia sono 9.400), il cui scopo è pagare gli assegni di disoccupazione, ma soprattutto, cercare un lavoro per chi non ce l’ha più.
Il direttore del Nav del Rogaland, Truls Nordahl, mostra una mappa della Norvegia, con tante spie rosse illuminate: “Sono i posti di lavoro a disposizione. Chi è iscritto da noi può guardare da solo questo sito oppure interpellarci”.
Ma perché un’impresa dovrebbe fidarsi di voi piuttosto che cercare da sola il lavoratore di cui ha bisogno ? “Siamo gratuiti e offriamo un servizio di qualità – risponde Nordahl – prima accompagniamo il disoccupato, cerchiamo di capire se ha le competenze adeguate. Qualche volta consigliamo ai nostri iscritti di tornare a scuola. Nel settore del petrolio spesso le persone venivano assunte durante gli studi, tanta era la domanda. Oggi si ritrovano senza diploma. Se tornano a studiare, lo Stato presta loro del denaro per vivere, ma devono essere loro a investire nel loro futuro. Poi proponiamo dei posti di lavoro, secondo quello che offre il mercato”.
Molti ingegneri hanno dovuto accettare di insegnare a scuola guadagnando meno che nel petrolio, gli operai sono stati dirottati nel settore dei trasporti, un laureato in Filosofia può finire dietro la cassa di un supermercato. E se il datore di lavoro propone solo un contratto a termine? “Gli proponiamo un patto: lui s’impegna a trasformare quel contratto parziale in un tempo indeterminato e noi paghiamo i primi sei mesi di salario”. E se poi non assume il lavoratore? “Può succedere – spiega Nordahl – ma quell’impresa perderà credibilità di fronte a sindacati e lavoratori. La fiducia da noi conta molto”.
Il modello norvegese ha tre gambe: lavoratori, datori di lavoro e governo.
“In maggio si discute il livello dei salari per l’anno successivo”, spiega Ommund Stokka, membro del board nazionale del sindacato per l’industria energetica, LO: “Il primo negoziato è a livello nazionale con le imprese esportatrici: se è stato un anno buono, tutti ci guadagnano, altrimenti si tagliano i salari, tutti mostrano moderazione”. È l’unico momento dell’anno in cui possono svolgersi degli scioperi.
Il segreto del modello norvegese è che “non c’è una grossa differenza tra quanto guadagna un capo d’impresa e un semplice operaio – dice il direttore del Nav Truls Nordahl – se un amministratore delegato guadagna dieci volte più del suo impiegato, non siamo più nella stessa barca”. Nordahl, che dirige un ufficio di 700 persone, guadagna 110.000 euro l’anno, il doppio di un impiegato del Nav. Il primo ministro norvegese 170.000.
Ma la crisi del petrolio mette sotto pressione questo modello. “Molti lavoratori del settore del petrolio vengono licenziati per poi venir riassunti dalle agenzie interinali per lo stesso lavoro”, spiega il sindacalista Stokka. “Non c’è una presenza dei sindacati in queste agenzie. Stiamo cercando di entrarci, ma sempre più agenzie sono registrate a Singapore, e fanno lavorare in Norvegia cittadini britannici”.
Tra pochi giorni si vota in Norvegia. Il tema del lavoro, prima appannaggio solo del Labour, all’opposizione, è diventato un tema ghiotto anche per il partito conservatore al governo. La ministra del Lavoro, Anniken Hauglie, ha promesso una nuova riforma del lavoro, che vieti i cosiddetti contratti “a zero ore”, dove i lavoratori sono pagati solo per delle missioni e non tra un progetto e l’altro. La difesa del lavoro è cruciale in questo Paese. Ne va del modello norvegese, il cemento di questa società.
* Investigate-Europe