Da giorni c’è una frase che mi frulla nella testa, è di George Clemenceau, colui che condusse la Francia alla vittoria nella Grande Guerra, il quale irrideva il presidente Poincaré dicendo che era “la perfetta imitazione di un vivente”. L’ha scovata Giuliano Ferrara e gliela chiedo in prestito perché mi sembra confezionata su misura con vicende e protagonisti di questi giorni. No, vi supplico non pensate subito male, non alludo assolutamente, ci mancherebbe altro, al capo dello Stato Sergio Mattarella che da quando lo vedemmo recarsi al seggio lo scorso 4 marzo non è mai intervenuto – a parte velatissime allusioni – su questioni inerenti il risultato elettorale.
Anche se qualcosa deve essere filtrato (immagino) attraverso le porte, a cui (vado a ruota libera) in determinate ore del giorno accostano l’orecchio i quirinalisti (virtuosi dell’alfabeto Morse cui va il nostro plauso) per cogliere alcuni segnali, forse ticchettati sugli stipiti dai consiglieri presidenziali. Una volta decifrati questi messaggi ci dicono che il Presidente ha assistito nella più silente immobilità all’elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento appena insediato. Egli si ripromette, nelle consultazioni avviate dopo la Santa Pasqua, di prendere diligente nota delle determinazioni dei gruppi parlamentari, senza tuttavia far trasparire qualsivoglia intendimento. In questo quadro rigidamente notarile, pervaso da un caloroso clima polare, suscitano viva irritazione e riprovazione – ci viene comunicato – le ipotesi insensate di governi presidenziali o altre fanfaluche del genere, comunque riconducibili al Quirinale. Amen.
A un origine diversa, invece, sembra doversi attribuire la funerea espressione facciale di Paolo Gentiloni, sprofondato in una sorta di catalessi da quando Mattarella (dicono i bene informati) lo costrinse, era dicembre, a non presentare le dimissioni (come da lui sollecitato) contestualmente allo scioglimento delle Camere.
Egli difatti avrebbe voluto divincolarsi in tempo da un governo ampiamente defunto per impegnarsi a tempo pieno nel Pd salvando il salvabile. Evitando cioè che il partito finisse stritolato nel delirio onanistico di Matteo Renzi. Come regolarmente avvenuto.
Ora il conte Paolo si aggira per palazzo Chigi, come il prigioniero di Zenda nelle segrete del regno di Ruritania. Di tanto in tanto convocato a Bruxelles viene colto a colloquio con gli ex pari grado mentre alza le spalle e allarga le braccia nella tipica espressione di chi non conta niente: ma che volete da me?
In questo trittico della mestizia sepolcrale non si può, infine, non dedicare un cenno al Partito Democratico, che dall’ora fatale degli exit-poll ha deciso di restare alla finestra. Forse, come è stato osservato con cinismo inqualificabile, per non buttarsi di sotto. A noi, più rispettosi del lutto che ha paralizzato il Nazareno, viene in mente Corrado Guzzanti nello strepitoso Romano Prodi dopo le dimissioni dal governo: “Vado alla stazione e mi fermo dietro la sua bella linea gialla e aspetto. Passa un treno ne passan due ne passan dieci ma io feermo aspetto. Feermo i piccioni mi cagano in testa ma io non faccio polemiche”. Feermo sta anche il Pd, forse perché serenamente si attende che con il trascorrere di equinozi e solstizi, lentamente, anche gli elettori si scordino. Una prece.