Se il governo del cambiamento fosse un governo del cambiamento qualcosa cambierebbe. Per esempio scomparirebbe dalle leggi la parola “deroga”, perché non è bello vedere un governo proporre, e un Parlamento approvare, leggi che autorizzano il governo stesso a violare le leggi perché intralciano, a giudizio di chi le viola, il percorso verso la felicità di tutti. E invece le bozze del decreto per Genova, approvato dal Consiglio dei ministri “salvo intese” (cioè salvo poi scriverlo) e ancora in alto mare, contengono la parola “deroga” una decina di volte.
Il capolavoro è il comma 4 dell’articolo uno: per la demolizione e ricostruzione del ponte Morandi “il Commissario straordinario opera in deroga a ogni disposizione di legge, fatto salvo il rispetto dei vincoli non derogabili derivanti dall’appartenenza all’Unione europea”. Per essere un governo sovranista non c’è male: le uniche regole che il Commissario dovrà rispettare sono quelle (odiose) europee, di quelle italiane può serenamente fregarsene.
Ed è così che il governatore della Liguria Giovanni Toti, dipendente di Silvio Berlusconi, scioglie il peana alla cultura del fare a ogni costo: “Siamo pronti a collaborare con tutti, buoni e cattivi, diavoli e santi, perché si faccia il ponte senza perdere tempo”. Il governo del cambiamento officia, per debolezza o insipienza, il grande ritorno della Casa delle libertà, versione Corrado Guzzanti: “Facciamo un po’ come cazzo ci pare”.
È la cultura della Legge Obiettivo (Berlusconi & Lunardi, 2002), che già nel nome voleva insegnare agli italiani che l’importante è il risultato, la velocità di esecuzione. Se poi qualcuno ruba pazienza. E si è vista a L’Aquila, nel post terremoto, la velocità di esecuzione: le uniche cose rapide sono state l’affidamento dei lavori e la raffica di arresti. Poi arrivò Matteo Renzi che volle San Raffaele Cantone all’Autorità anticorruzione. Il quale fece subito due cose: disse che la Legge Obiettivo era “criminogena” e allo stesso tempo benedisse l’Expo di Milano di Giuseppe Sala, commissario con poteri speciali in deroga a tutto. Perché – l’abbiamo capito – Berlusconi e Renzi hanno la stessa cultura e la stessa priorità, fare in fretta saltando le procedure. Perché i grandi leader si considerano capaci, molto più dei burocrati, di selezionare ictu oculi i costruttori amici, capaci e onesti. E veloci.
Nessuno ha mai spiegato perché fare i lavori pubblici con progetti ben eseguiti, calcoli dei costi attenti e onesti, gare d’appalto corrette, debba richiedere più tempo. Forse perché il dirigente ministeriale è più incentivato a sbrigare alacremente la pratica se l’appalto è affidato a un’azienda che, diciamo, lo conosce bene? Forse perché, come teorizzava la sinistra ferroviaria negli anni 80, un tasso controllato di corruzione è l’ideale per lubrificare gli ingranaggi della pubblica amministrazione? Forse perché, dunque, se un ministro riesce a evitare che su un appalto rubino tutti, costruttori e burocrati (e magari anche qualche giudice amministrativo), la macchina dello Stato si ferma? Nessuno si preoccupa di fornire queste risposte. Tutti però hanno il rimedio pronto: se volete il ponte di Genova ricostruito in un anno (vedremo) dovete lasciarci fare “un po’ come cazzo ci pare”.
C’è un problema ulteriore, forse ancora più grave, che si manifesta laddove alla malafede si sostituisca l’insipienza, che non è un gran miglioramento. Peggio ancora, c’è l’ipotesi che la malafede si manifesti nella forma insidiosa della finta insipienza. Nel decreto per Genova hanno scritto una cosa assurda, e cioè che la società Autostrade, in quanto responsabile del crollo del ponte, deve versare sull’unghia al Commissario i milioni necessari a ricostruirlo, nella misura decisa dal Commissario stesso. Poi c’è un inciso: “Impregiudicato ogni accertamento sulla responsabilità dell’evento e sul titolo in base al quale sia tenuto a sostenere i costi di ripristino della viabilità”. Traduzione: il governo del cambiamento fa la faccia cattiva e ordina al renitente amministratore delegato Giovanni Castellucci, l’uomo che non ha mai colpa di niente, di mollare il malloppo; la società di casa Benetton farà un bel ricorso al Tar e al Consiglio di Stato dove probabilmente tra un po’ di anni le daranno ragione i colleghi dei consiglieri di Stato comandati presso Palazzo Chigi per scrivere questi capolavori; e i contribuenti dovranno restituire il maltolto ai Benetton con tante scuse e interessi.
Infatti il decreto stesso si preoccupa di dire che, qualora Castellucci non mollasse i 150 milioni previsti entro 30 giorni, il Commissario potrà farseli anticipare al 3 per cento da chi pare a lui, fosse anche il cognato (c’è la deroga), cedendogli pro solvendo il credito che lo Stato vanta nei confronti di Autostrade non in forza di un contratto ma di un decreto legge. Viene il sospetto che con questo decreto i Benetton si arricchiranno ancora, se avranno solo un po’ di pazienza.