“Sono entrata in Senato in punta di piedi”, racconta Liliana Segre. “Io sono vecchissima, compio 88 anni a settembre. Non avrei mai pensato di diventare uno dei cinque senatori a vita. Quando mi hanno telefonato dal Quirinale, pensavo che volessero consegnarmi un certificato, una targa, una medaglia. Invece poi mi ha chiamato il presidente Sergio Mattarella e mi ha detto: ‘Cara signora, questa mattina l’ho nominata senatrice a vita’. Sono rimasta sbalordita. Quando mi ha ricevuto nel suo studio, gli ho detto: ‘Grazie presidente! Ma chi le ha fatto il mio nome?’. E lui mi ha risposto con queste parole: ‘Sono io che l’ho scelta. Chiunque dovesse dirle che mi ha suggerito il suo nome farebbe millantato credito’”.
La nomina è avvenuta nell’ottantesimo anniversario dell’introduzione in Italia delle leggi razziali fasciste. Quando lei scoprì di non potere più andare a scuola.
Avevo otto anni. Fu in quell’occasione che scoprii di essere ebrea. La mia era una famiglia ebraica atea, non avevo mai seguito forme religiose di alcun tipo. Mi sono trovata a essere ebrea con le leggi razziali, quando non sono più potuta andare in terza elementare. Oggi bisognerebbe avere la pazienza di leggere tutti gli articoli di quelle leggi, che ai cittadini italiani di religione ebraica proibivano non solo di andare a scuola, o di far parte dell’esercito o dell’amministrazione pubblica, ma anche tante altre cose: tenere cavalli, o tracce di lana (per gli stracciai di Roma)… Per farti sentire diverso, inferiore.
Lei ha fatto l’esperienza, da bambina, di essere una richiedente asilo respinta, arrestata, detenuta.
Non posso dimenticare che, quando mio padre nel 1943 decise – troppo tardi, purtroppo – la fuga dall’Italia, siamo stati dei richiedenti asilo respinti dalla Svizzera al confine. Eravamo io, mio papà e due cugini. Di noi quattro, solo io alla fine sono sopravvissuta. Poi siamo stati arrestati – io avevo 13 anni – e detenuti nei carceri di Varese, Como e Milano San Vittore. E infine deportati ad Auschwitz. A 14 anni ho fatto per un anno lavoro-schiavo in una fabbrica di munizioni della Siemens. Sono stata liberata nel maggio del 1945, dopo essere stata bambina in una situazione che neppure Primo Levi riesce a descrivere fino in fondo, tanto che scrive: “Auschwitz è indicibile”.
Che cosa pensa quando passa davanti alla Stazione Centrale di Milano? Dal binario 21 partì per Auschwitz.
La Stazione Centrale allora era doppia. Sotto i binari che conosciamo, ce n’erano altri sotterranei da cui partivano le merci e gli animali. Da lì – dove ora è stato realizzato il museo della Shoah – siamo partiti, mentre attorno la città era silente, indifferente. Lì sotto entrammo in centinaia, nell’indifferenza della città.
Lei ama Milano?
La amo moltissimo. Sono nata a Milano, come i miei genitori e uno dei miei nonni, milanese tra i fondatori della Croce verde. Un mio zio era un fascista della prima ora e poi si è disperato per tutta la vita.
Una città indifferente, ha detto. Anche oggi?
La amo nonostante tutto, come amo l’Italia. Oggi ci sono spiriti che tentano di non essere indifferenti. Ma, come sempre, sono pochi a fare scelte. La massa non sceglie, è indifferente. Non solo a Milano, ma in Italia e nel mondo.
Tornata da Auschwitz, aveva più voglia di dimenticare o di raccontare?
Ha sempre vinto il desiderio di vivere, quando tutto attorno era morte. Ma al ritorno la delusione è stata grande, perché tornavamo, ma non trovavamo più niente, né la casa, né la famiglia. E nessuno aveva voglia di ascoltarci. Tutti avevano vissuto storie dolorose, nessuno aveva voglia di ascoltarne di ancor più dolorose. La maggior parte di noi sopravvissuti ha taciuto. Io ho taciuto per 45 anni. Dai miei 15, compiuti pochi giorni dopo il mio ritorno, fino a quando, a 60 anni, sono diventata nonna. Allora qualcosa mi ha spinto a parlare. Senza odio. Cercando di parlare non troppo di morte, ma il più possibile di vita. Mi ha spinto il fatto che avevo vinto su Hitler, perché io era viva, ero diventata mamma, e perfino nonna: aveva vinto la vita. Così ho deciso di non restare più chiusa in casa, ma di testimoniare ciò che avevo vissuto perché restasse memoria. Ho capito che mi era uscita la voce.
Oggi per lei è più difficile parlare?
Il clima è peggiorato. Oggi c’è una cosa diversa dall’indifferenza di allora. Sono passati 80 anni dalle leggi razziste e il razzismo è minimizzato, è tollerato, “ma i fascisti hanno fatto anche cose buone”. Sì, facevano arrivare i treni in orario: soprattutto quelli per la deportazione. C’è una rivalutazione di quegli anni.
Vede il pericolo di un ritorno a nuove forme di razzismo? Verso gli ebrei, o magari verso gli immigrati, gli arabi, i neri, i rom. O, più in generale, verso i poveri?
Sì, c’è il pericolo di tornare a forme pesanti di discriminazione. Non credo ci sia pericolo immediato per gli ebrei, anche se ritengo che l’antisemitismo non sia mai morto. Subito dopo la guerra era “osceno” mostrarsi razzisti e antisemiti; adesso, dopo tanti anni, vale tutto. Prevale lo hate speech, il discorso dell’odio: dappertutto, dalla riunione condominiale alla politica. All’indifferenza oggi si somma il discorso dell’odio. E questo mi fa paura.
Su cosa s’impegnerà in Senato?
M’impegnerò contro i “discorsi dell’odio” e per introdurre l’insegnamento dell’educazione civica fin dalla prima elementare. Poi vorrei che fosse reso obbligatorio l’insegnamento del 900 nell’ultimo anno di ogni ciclo scolastico.
In Senato ha deciso di iscriversi al gruppo misto. E al momento di votare la fiducia al governo Cinquestelle-Lega ha scelto l’astensione.
Io nella mia vita non ho mai fatto politica attiva. Ma la mia storia è quella che è. È chiaro che non mi posso mettere con i fascisti. Ma sono entrata in Senato in punta di piedi. Ho deciso di non schierarmi. Ho grande rispetto per la democrazia, le istituzioni e per la nostra Costituzione che è bellissima. Dopo l’astensione alla fiducia, valuterò i provvedimenti del governo volta per volta. Una parte di questo governo mi è misteriosa, dunque cercherò di capire. Senza pregiudizi.