Prima di parlare della legge sulla diffamazione, Beppe Giulietti – segretario della Federazione nazionale della stampa e fondatore di Articolo 21 – vuol fare una premessa: “Quando si affrontano temi che hanno a che fare con la libertà d’informazione, meno norme si fanno e meglio è. L’articolo 21 della Costituzione e le sue successive interpretazioni da parte della Consulta costituiscono un quadro di garanzie che starei attento ad aggirare”.
Possiamo cominciare?
Sì. Chiarendo qual è la situazione generale. Il Parlamento ha votato, con la fiducia, una delega al ministro per intervenire sulle intercettazioni, che sono un terreno minato e di stretta competenza parlamentare perché si fa molto presto a passare dalle intercettazioni illecite al divieto di utilizzo delle intercettazioni tout court. In queste settimane, poi, abbiamo visto come si stia cercando di forzare il segreto professionale dei giornalisti: gli ultimi due casi sono le perquisizioni e i sequestri di cellulari e pc ai danni di Marco Lillo e di Gianluca Paolucci. Il quadro si fa ulteriormente preoccupante se pensiamo che questi colleghi si stanno occupando di inchieste rilevanti per i cittadini, indagini che hanno a che fare con lo Stato, con il funzionamento dei mercati.
Mentre tutto questo accade, arriva in Senato la legge sulla diffamazione.
Una legge largamente insufficiente. Prevede l’abrogazione del carcere per i giornalisti, ma è non un regalo, è il recepimento, con grave ritardo, di una richiesta dell’Europa. Poi si inaspriscono le sanzioni, poi ancora si vorrebbe prevedere l’intervento di un’Autorità di garanzia per la rimozione dei contenuti ritenuti lesivi. Ma il Garante non è un giudice! Si sottrae la competenza alla magistratura, cioè a un organo di rango costituzionale cui è affidata la funzione giurisdizionale, per affidarla a organismo di nomina politica.
Il ddl non affronta la questione delle querele temerarie.
Si blatera di un’impossibilità di definirle. Balle: in una sentenza del Tribunale di Reggio Calabria, che tra l’altro riguardava un giornalista che collabora con il Fatto, si definisce la querela temeraria. Cioè quando una persona, o più spesso una società o un gruppo, chiede un risarcimento palesemente abnorme rispetto all’eventuale danno con intento intimidatorio. Spesso queste azioni vengono intentate ai danni di giornalisti che scrivono su blog o piccole testate e che sono senza tutele: ma anche se chiedono 20 milioni di euro a un giornale medio-grande, il risultato è sempre che per due anni uno va in giro per tribunali con la spada di Damocle di 20 milioni di euro sulla testa. Secondo l’osservatorio di “Ossigeno per l’informazione”, il 90 per cento di queste cause viene archiviato. Ecco, quando viene archiviata, bisognerebbe che il querelante temerario versasse una percentuale di quanto richiesto. Prima di intentare la causa, dovrebbe pensarci bene: una richiesta che abbiamo fatto, insieme ad autorevoli giuristi, ma che è rimasta inascoltata.
Perché l’informazione è nel mirino in questo momento?
Non accade solo in Italia. Succede negli Usa e in molti Paesi Ue, dove si utilizza la sicurezza nazionale come scusa. L’informazione dovrebbe vigilare sui poteri, ed è quello che i poteri non vogliono. La cosa grave è che tutto questo non è oggetto di dibattito nei Parlamenti nazionali: maggioranze e opposizioni, con l’eccezione di singoli parlamentari, condividono il fastidio verso la libera stampa e il dissenso.
Cosa si potrebbe fare?
È semplice: tutte le sentenze della Corte europea hanno un elemento dirimente, che si riassume in una riga: “fatti salvi la rilevanza sociale e l’interesse pubblico”. Queste decisioni hanno disinnescato molte sentenze dei Tribunali nazionali, anche in caso di pubblicazione di intercettazioni non legali. I comportamenti, anche privati, hanno rilevanza pubblica e possono essere resi noti perché prevale l’interesse dei cittadini. Basterebbe inserire questa riga nella nostra legislazione, sia in tema d’intercettazioni, sia in tema di diffamazione.